PoesiaCH10

Da Ortosociale.

Mi piace scrivere

Mi piace scrivere. Mi è sempre piaciuto. Ancor prima di imparare a farlo correttamente. Scrivo di tutto e su tutto: piccoli pensieri, considerazioni, fatti e misfatti. Scrivo dappertutto: in mezzo a una strada, in autobus, in macchina mentre attendo che scatti il verde.
Scrivo in ogni momento.
A volte è proprio un’ossessione: chiudo gli occhi per addormentarmi o rilassarmi (dopo una giornata trascorsa a… scrivere) e… zac! la mia fantasia galoppa senza sosta e afferra un concetto, una frase, un verso poetico. Accendo di fretta la luce, neanche il tempo per inforcarmi gli occhiali (ma tanto sono superflui: ho tutto chiaro in mente!) è giù a scrivere per immortalare la mia più alta produzione cerebrale.
A volte scriverei persino quando non si dovrebbe: durante una cena a lume di candela per “fissare” le sensazioni più segrete, nel corso di una chiacchierata tra amici, al telefono con mamma (che noia ascoltarla ripetere sempre e immancabilmente le stesse raccomdazioni!). Ma non si può usare il taccuino con gli affetti. Va bene la deformazione professionale, ma questo proprio no. Adoro scrivere.
Ho cominciato per gioco, l’ho scelto come professione e modello di vita. Scrivo di qualunque cosa, anche su commissione. Ma non sono una killer della parola né tanto meno una mercenaria: la mia abilità non è in vendita: è solo l’autentica dimostrazione della mia professionalità.
Scrivo anche di sesso. Anche se in teoria non ci capisco granché (i ruoli si sono davvero ribaltati). In teoria, comunque (l’oggetto è “non ci capisco un granché”, non pensavate mica che alludessi a “i ruoli si sono davvero ribaltati”, dato che tutto sommato un figlio sono riuscita a farlo pure io (la maternità è per il momento ancora un privilegio tutto femminile: i ruoli, in questo caso, non si sono ancora ribaltati).
Scrivo anche di politica, anche se quella mi fa un po’ sbadigliare (che perdita di tempo!). Ma l’importante è accettare anche il risvolto della medaglia (e dei medaglioni) e continuare a… scrivere. Anche soltanto per tener fede al concetto di “scrivere purché si scriva”.
Prendiamo la sociologia, ad esempio. Se volte potrei scrivere un trattato sul ruolo dei ruoli sociali nell’arruolamento volontario, ma vi arroverei il cervello di teorie traballanti e per niente GENERALIzzatrici. Ma volete togliermi la soddisfazione di raccontarvi di un mitico paese (che non c’è) in cui vige l’armonia e il rispetto per gli altri? Sì, va bene, niente in confronto a quanto abbiano già scritto in proposito Platone o Tommaso Moro o Tommaso Campanella (il nome mi richiama la dolce fatina Tintinna). [Break: messaggio per la mia ex prof di filosofia: a distanza di tempo, l’incubo delle mie preparazioni è ancora vivo in mente]. Ma qualche volta è anche bello credere a favole più semplici, alla portata di tutti e poter pensare che l’Isola del paese che non c’è non sia soltanto la proiezione del magico mondo di Peter Pan, ma anche la produzione fantastica di una grande scrittrice in erba (a proposito: quando mi metto a scrivere di fronte alla mia casa di campagna, beh, mi riesce davvero meglio: il contatto con la natura riesce a fare miracoli. E questo per una scrittrice in erba rappresenta un bel vantaggio).
Insomma, SCRIVO. Quando mi pare SCRIVO. Dinnanzi a tutto SCRIVO. E non mi fermo più. (E se provate a togliermi la penna, ho sempre il mio pc portatile. Evviva l’era dell’informatica e della libera comunicazione!).
Ciao, sono sempre io.
Pensavo di aver terminato (di scrivere) e invece mi è ritornata l’ossessione di scrivere ancora. Che fare? Portate pazienza, sono le quattro del mattino anche per me (oddio, fra poche ore devo essere pronta, portare il bambino all’asilo, andare a tre appuntamenti, fare un salto al giornale, andare in palestra, poi a riprendere il bambino, portarlo in piscina, fare la spesa, cucinare, raccontargli le tavolette, guardare l’edizione notturna del telegiornale… certo che a fine giornata ne ho di cose da scrivere).
Come rivelato all’inizio del mio scritto, io sono solita scrivere in qualsiasi luogo e posizione (il mio maestro di yoga, alla terza lezione mi ha invitato a rinunciare al corso perché “non ero in grado di raggiungere la mia più alta concentrazione”. Beh, come cavolo potrebbe fare una persona alta 1,65 m a scrivere a testa in giù e raggiungere la più alta concentrazione? Ad ogni modo i soldi del corso non me li ha mai restituiti: che abbia “concentrato” pure quelli? Ma parliamo dei miei luoghi (impensabili) di scrittura. Il brutto è quando cammino e mi trovo ad attraversare un incrocio. Guardando il verde che lampeggia, mi vengono in mente delle frasi: taccuino alla mano e giù a scrivere, incurante del giallo, del rosso, degli automobilisti che pigiano sul clacson, del vigile che fischia (a proposito degli automobilisti: sono proprio una brutta categoria: ti investirebbero addirittura sulle strisce pedonali!).
Avete mai provato a scrivere al cinema o a teatro? Un’impresa davvero ardua: non vedi assolutamente dove stai andando con la penna: cose che per farsele decifrare bisognerebbe rivolgersi a un egittologo.
Sentite questa. Una sera a teatro me ne stavo tutta presa ad ascoltare Lella Costa recitare (insuperabile!) quando mi viene l’ispirazione. Prendo l’agenda e scrivo “sviluppare la battuta sul matrimonio”. “Che fai? - mi chiede allarmato il mio accompagnatore – non puoi copiare le sue battute: sono protette da copyright. Io? Un’emulatrice? Ma allora questo non ha capito niente di me! E da quella sera non lo rividi più: l’amore (si fa per dire) è cieco, ma sordo (e stupido) proprio no.
L’appetito vien mangiando, cita l’adagio. Ma al ristorante quando le portate tardano ad arrivare l’attesa diventa anche imbarazzante (“che pizza…”, ti vien da dire, anche se hai ordinato un piatto di maccheroni “alla mamma Rosa”). Così io, che per la maggior parte dei casi pranzo sola (per ritmi di lavoro inconciliabili con le esigenze nutrizionali dei comuni mortali), ammazzo il tempo scrivendo. Prendo il mio insuperabile notes e incomincio un romanzo, una storiella da raccontare al mio bimbo la sera, una dichiarazione d’amore (o di guerra) da sbandierare al momento opportuno… Chissà perché al mio tavolo una volta, tutti i camerieri, tra una portata e l’altra, facevano a gara per sbirciare tra le righe (o tra la mia profonda scollatura?). Alla fine arriva il gestore del locale. “Signorina – mi dice tutto emozionato – posso avere l’onore di offrirle il dolce della casa? Assaggi questo vino novello prodotto dai nostri rinomati colli”. Io depongo la penna (tregua!), mi tolgo gli occhiali e con un sorriso lo invito a sedersi di fronte a me. “Lei è una scrittrice, vero?” – mi chiede tutto eccitato. “Praticamente sì” rispondo io con un sorriso enigmatico (Il ripieno della torta sarà alla crema o ai frutti di bosco? Speriamo ai frutti di bosco!). “Ah, lo dicevo io: lei è una critica gastronomica. Ha voluto provare il mio locale, vero? Dica, lo inserirà nell’annuario tra i migliori?”. “No, non mi occupo di cucina” – rispondo gustando la torta (per fortuna è ai frutti di bosco: odio la crema!). “Ah, capisco – ribatte lui visibilmente deluso. E di cosa si occupa?”, chiede più per circostanza che per reale interesse a saperlo veramente. “Scrivo un po’ di tutto: fatti di cronaca, spettacolo, arte, salute, bellezza, persino di meditazione orientale. Tutto, insomma, tranne che di cucina”. “Complimenti – mi risponde lui – si pensi che all’inizio l’avevo scambiata per un’ispettrice sanitaria (no comment!).” Mi alzo per pagare. Il conto lo fa direttamente lui. “Un po’ salato”, penso mentre sto per uscire. Per una curiosità tiro fuori la ricevuta fiscale. Altro che “offre la casa”: quello mi ha messo in conto sia la fetta di torta (ma forse l’avrei ordinata ugualmente, tanto era sublime!) che la bottiglia di vino (non ho assaggiato nemmeno una goccia: sono astemia!). Che mi abbia scambiato per una guardia di finanza?
Quando vado al supermercato è proprio un incubo. Mi metto a scrivere nell’intervallo tra un flacone, una scatola e una bottiglia che afferro. A volte faccio incetta negli scaffali senza neanche vedere cosa imbuco nel carrello. E così, mentre sono in fila alla cassa, in un lampo di lucidità mi viene da fare retromarcia e da riporre tutto al proprio posto, e ricominciare la spesa daccapo. “Guardi che tocca a lei” – mi dice l’altro giorno un’energumena spazientita. “Che faccio? Sono in trappola!”, penso, augurandomi di aver portato con me il bancomat. La cassiera mi guarda allibita. “Ma quanta roba. Non siete in due voi a casa?” “Sì - rispondo io pensando a una scusa da inventare – E’ che ho spesso ospiti a cena”. “Non sapevo che avesse anche cani e gatti”, mi chiede sospettosa mentre batte il prezzo delle dieci scatole formato famiglia di cibo per animali. “Infatti non li ho: quelle sono per i cuccioli dei miei ospiti. Da quando hanno visto che da me si mangia bene, a casa da soli non ci vogliono proprio stare!”. Uff, per fortuna è andata! La cassiera sembra aver creduto a tutto, Sì, ma che fatica! Per fortuna domani vado in vacanza, cosi mi riposerò un po’. Ah, la spesa? Niente paura: ho un freezer molto capiente a prova di… scrittura.
La mia casa straripa di scritti: ormai fanno parte dell’arredamento. Li imbuco dappertutto, li appiccico sugli specchi, sul frigorifero come pro-memoria (devo ricordarmi di finire di… scriverli!). Armadi, cassetti, scatole imbottite dai miei appunti… persino in cucina. L’altro giorno mamma stava cercando nella credenza un utensile per insegnarmi una sua squisita ricetta: fondi di carciofo all’impazzata, una vera delizia. Non posso spiegarvi gli ingredienti: loro sì che hanno il copyright e poi tradirei un segreto di famiglia. Beh, diranno in molti “non mi interessa, sono a base di carciofi e a me non piacciono i carciofi”. Se è per questo neanche a me piacciono i carciofi: anzi, li detesto (non li ho mai potuti digerire!). Ma la ricetta di mamma è davvero grandiosa. La cosa più pazza è che di carciofi non se ne vede proprio l’ombra. Però il sapore è autentico, ve lo assicuro. Per quanto possiate credere a una che i carciofi – quelli veri – non li ha mai voluti assaggiare.
Allora, vi dicevo… mamma stava aprendo la credenza alla ricerca di questo insostituibile utensile (insostituibile, s’intende, per la sua mitica ricetta di “fondi di carciofo all’impazzata”). No, scusate, non insistete! La ricetta non ve la spiego neanche sotto tortura: beh, se mi costringete a mangiare carciofi veri, forse ve la spiattello subito). “Che brava cuoca e che perfetta economa” mi dice la mamma, alludendo alla serie di bigliettini dalla fitta calligrafia che tengo appiccicati all’interno delle ante. “Mamma, quelle non sono ricette di cucina e nemmeno conti della spesa” – volevo urlarle, per farle capire una volta per tutte che io non sono la figlia che lei pensa (non vorrebbe: pensa) che io sia. Ma l’angoscia di deluderla, di ferire la sua gratificazione di maternità (“tale madre, tale figlia” è il suo motto) era molto più forte del morso che mi sono data alla lingua per costringermi a tacere. E così ho trascorso tutta notte a pensare e alla fine ho scritto un lungo romanzo basato sul conflitto tra madre e figlia, con tutti gli ingredienti (stavolta ho svelato tutti i retroscena di famiglia, ad eccezione della ricetta dei “fondi di carciofo all’impazzata”) in regola per diventare un best-seller. Peccato che manchi solo un buon editore che me lo pubblichi!
Ma adesso basta: a forza di scrivere mi è venuto male alla mano. Che volete farci: il callo della scrittrice ce l’ho, ma il polso proprio no!

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