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Da Ortosociale.

molestate e molestatori: una storia infinita e incompresa

Di Angela Giuffrida. Marzo 2018. L'articolo è stato pubblicato da "laboratorio donnae".

La trasmissione Presa Diretta ha evidenziato non solo l’universalità e la pervasività delle molestie sessuali perpetrate dagli uomini sulle donne, ma anche l’inadeguatezza delle risposte della maggior parte di queste ultime. Proviamo ad esaminare prima di tutto la risposta di quelle donne che assicurano materna protezione ai molestatori. Inconsciamente esse aderiscono ad un meccanismo tipico della psiche maschile che tende a proiettare sull’altra/o i propri torti, liberandosi di ogni responsabilità.

L’idea di considerarsi causa delle maschie aggressioni e la svalutazione costante della propria persona, inculcate a forza nella loro mente per millenni, suggeriscono alle donne di concentrarsi sulle molestate anziché sui molestatori, sulle vittime anziché sugli aggressori, la qualcosa le vede paradossalmente allineate a chi, nei processi per stupro, trasforma ancora oggi le vittime in imputate.

Puntare i riflettori sulla persona offesa ostacola la sua possibilità di ottenere giustizia e nel contempo oscura colui che offende, permettendogli di reiterare senza problemi comportamenti lesivi della dignità e libertà altrui perché impedisce di riflettere seriamente sulle vere cause di pratiche tanto riprovevoli quanto diffuse nelle società a guida maschile.

Situato infatti in un cono d’ombra il soggetto responsabile, è difficile metterlo in discussione, ponendo domande che lo riguardano – cruciali per la comprensione e risoluzione dei problemi da lui creati – come ad esempio perché mai pretende di essere il padrone del mondo, comprese le persone (donne ma anche uomini) che riduce a cose, semplici mezzi per soddisfare le sue esigenze.

L’inopportuno sostegno ai soprusi maschili danneggia entrambe le parti in causa perché rende tutte le donne più esposte e fragili e gli uomini ancora meno disposti a quella doverosa assunzione di responsabilità, necessaria per evolversi e arrestare la caduta libera verso una bestialità sempre più feroce. Tuttavia ci sono donne a cui non basta velare l’inqualificabile operato di molti uomini, ma intendono legittimarlo scopertamente. Mi riferisco alla lettera firmata da cento accademiche e artiste francesi, molto critica nei confronti di # Me Too, il movimento di protesta nato in seguito al caso Weinstein.

La missiva si muove in un’atmosfera irreale, lontana dalla concreta e dura realtà in cui le donne sono costrette a vivere in ogni angolo del pianeta. Inizia tracciando un netto discrimine – tentato anche da altre/i – tra stupro e molestia, i cui confini non appaiono però così netti se si considera che alla loro base opera lo stesso concetto di donna, rappresentata come cosa, priva della qualità di soggetto autonomo. In entrambi i casi non è previsto il suo consenso; i suoi sentimenti e i suoi pensieri sono irrilevanti, contano solo il desiderio e le intenzioni maschili. Difendere pertanto “la libertà di importunare”, significa rafforzare l’insignificanza della donna e delle sue legittime risposte nella mente maschile, incatenandola davvero in permanenza “allo statuto di vittima” in quanto oggetto alla mercé dell’arbitrio altrui.

Dallo scritto emerge la chiara volontà delle donne francesi di evitare la vittimizzazione, che invece risulta fortificata a dispetto delle loro intenzioni. In società che hanno nello sfruttamento delle donne il loro fondamento, ogni donna è vittima, non importa a che nazione, a che classe appartenga, quale sia la sua religione o il colore della sua pelle. Perciò che senso ha fingere di non esserlo? Sminuire la molestia, legittimarla addirittura come “indispensabile alla libertà sessuale” incoraggia la violenza maschile, dato che un comportamento non gradito, imposto con prepotenza, è comunque violento.

Vale la pena di notare che concetti distorti producono ragionamenti e prese di posizione errate ma soprattutto autolesionistiche. L’Enciclopedia Treccani definisce vittima “chi soccombe all’altrui inganno e prepotenza, subendo una sopraffazione, un danno, o venendo comunque perseguitato e oppresso…chi è costretto a subire imposizioni altrui, a essere succube di altri”. La vittima, dunque, dovrebbe suscitare rispetto, comprensione e originare comportamenti atti a sostenerla e rendere operante quel garantismo di cui ci si riempie tanto la bocca, ma che è volto viceversa a garantire chi i torti li fa, non chi li subisce. Il fatto è che sulla vittima vengono scaricate tutte le colpe e la responsabilità dei misfatti, sia a causa del meccanismo proiettivo di cui sopra che di altri aspetti interni al pensiero maschile, come ad esempio l’inclinazione a polarizzare il reale.

La vittima appare dunque ai nostri occhi come la perfida istigatrice dei reati commessi da altri ed è questa rappresentazione mentale, fatta propria anche dalle donne, che spinge alcune di loro a rifiutare, sminuendola, la condizione di vittima. La lettera di cui sopra è pervasa dal tentativo di minimizzare il fenomeno molestie, ignorandone la reale portata: appena un accenno al ricatto sul luogo di lavoro che fa perdere a tante donne il sostentamento per sé e per le proprie famiglie e ne spinge altre a rinunciare al sogno della loro vita; la riduzione a “rimorchio imbarazzante”, a “struscio sulla metro” – non equiparabili secondo le scriventi ad aggressioni sessuali – delle innumerevoli forme e modalità che le molestie possono assumere; l’oblio delle ricadute che percepirsi come preda in balia di ogni maschio cacciatore può avere sull’immagine di sé, sulla fiducia in se stesse e sull’autonomia delle donne, soprattutto giovani e giovanissime verso cui si indirizza di preferenza la bramosia maschile; la mancata stima della sproporzione tra la vittima e l’aggressore, sostenuto dalla società che l’uomo ha costruito a sua immagine e somiglianza.

Tutto questo permette di sostenere che le donne possono “vivere pienamente la loro vita senza lasciarsi intimidire né colpevolizzare” dalla forza soverchiante del sistema a loro profondamente avverso, cosa alquanto difficile soprattutto quando ne sono state interiorizzate le categorie e lo si sostiene perciò dall’interno. Credere che la pulsione sessuale sia per natura “offensiva e selvaggia” e che “la libertà di dire no ad una proposta sessuale non esista senza la libertà di importunare” significa prendere per buoni i concetti di sessualità e di libertà che rispecchiano la limitatezza del punto di vista maschile sul mondo. Allo stesso modo le affermazioni secondo cui “gli incidenti che possono toccare il corpo di una donna non inficiano necessariamente la sua dignità” perché “non siamo riducibili al nostro corpo” mostra l’adesione a un’idea di corpo come mero contenitore di un’interiorità altra, della quale non è la fonte. Eppure essere corpi biologici è ciò che ci permette di sentire, pensare, agire, distanziandoci dal mondo non vivente.

Penso sia chiaro a questo punto che la permanenza nel sistema cognitivo dominante impedisca alle donne di sapere chi sono e cosa rappresentano per la specie, di recuperare il loro modo di osservare il mondo e concettualizzarlo e quindi di emergere come il soggetto che, avendo fondato la specie, è in grado di governarla sapientemente. Mi pare che neanche le fondatrici di # Me Too e # quella volta che e la gran parte delle donne che le seguono abbiano tale consapevolezza, si aspettano infatti che le denunce siano sufficienti per rivoluzionare un sistema di sapere e potere nato per inseguire un solo fine: assicurare agli uomini il dominio sulle donne e sulla natura.

Spetta invece alle donne un lavoro di scandaglio della mente maschile e dei suoi meccanismi lungo e faticoso ma affascinante. “Del resto ne vale la pena poiché, inaugurando un nuovo stile di pensiero di tipo organicistico ed inclusivo, capace cioè di cogliere l’unitarietà del reale senza cancellare la singolarità e la differenza, si apre davanti ai nostri occhi un campo sterminato di ricerca che, concentrandosi sui legami e sui nessi anziché sulle lacerazioni e le opposizioni, impegnerà la specie ad organizzare la propria vita su altre basi”.[1]

[1] Angela Giuffrida – Il corpo pensa. Umanità o femminità? – Prospettiva Edizioni pag. 12

Di Angela Giuffrida

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