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Da Ortosociale.

A proposito dell’articolo di Lea Melandri "Perché il femminismo non sfonda adesso che potrebbe?"
La debolezza del femminismo
di Angela Giuffrida - Pubblicato su Il paese delle donne on line

“Il femminismo non è riuscito a generalizzare la sua cultura, che riguarda uomini e donne, sfera pubblica e sfera privata” perché è rimasto impantanato nella cultura dominante di cui usa i perversi meccanismi che impediscono di trovare risposte significative

Ho appena finito di scrivere un saggio, intitolato “ La razionalità femminile unico antidoto alla guerra ”, dove esplicito i motivi per cui il femminismo mondiale è afasico e rapsodico. Tali motivi vengono confermati in pieno dall’articolo di Lea Melandri, Perché il femminismo non sfonda adesso che potrebbe?, apparso su Liberazione del 15 ottobre u.s. e ripreso da Il Paese delle donne on line.

Riconoscendo che il femminismo ha perso col tempo radicalità e coraggio, per risolvere il problema Melandri non trova niente di meglio che ricorrere con Laura Kreyder ad “un salvifico bilinguismo”, cioè “il ragionare con la memoria profonda di sé, la lingua intima dell’infanzia e, contemporaneamente, con le parole di fuori, i linguaggi della vita sociale, del lavoro, delle istituzioni”.

In una parola mantiene il sistema binario, causa delle infinite opposizioni che lacerano il mondo, anzi lo rafforza permanendo al suo interno. Appiattire la realtà su coppie di contrari in eterno conflitto, pendolare da un polo all’altro alla ricerca di impossibili sintesi, è tipico della mente maschile. “Il femminismo non è riuscito a generalizzare la sua cultura, che riguarda uomini e donne, sfera pubblica e sfera privata” perché è rimasto impantanato nella cultura dominante di cui usa i perversi meccanismi che impediscono di trovare risposte significative.

Melandri, d’altra parte, non pensa che il compito del femminismo sia tanto di dare risposte (come mai, ritiene forse che le donne non ne siano capaci?), quanto di “porre interrogativi al contesto in cui viviamo, in modo meno semplicistico di quanto non si faccia di solito”, lasciando intendere che i contesti in cui viviamo, intrinsecamente irrazionali e disumani, abbiano bisogno di qualche modifica qua e là non di un altro, affatto diverso, punto di vista.

Per la verità dice che bisognerebbe “recuperare la radicalità dello sguardo, del punto di vista che ha caratterizzato il femminismo ai suoi inizi”, ma ritiene che ciò sia possibile semplicemente pronunciandosi “non solo su questioni specifiche, come la procreazione medicalmente assistita, i consultori, la violenza maschile contro le donne, ma su fenomeni che investono tutta la società: la crisi dei partiti, il trionfo dell’ antipolitica, il populismo, le politiche sicuritarie, la xenofobia, la crisi della famiglia, le battaglie per i diritti civili, le biotecnologie”.

Ma pronunciarsi su questa gran mole di questioni in modo efficace non comporta forse un modo diverso di stare al mondo e di conoscerlo? Come mai Melandri non ritiene che fra i compiti del femminismo vi sia prioritariamente l’ elaborazione di un diverso sistema cognitivo capace di superare la semplice mediazione dialettica, che lascia intatta la visione dicotomica, attraverso la piena assunzione della complessità del reale in cui stemperare la spinta aggressiva dei poli opposti?

Secondo me l’originaria tendenza delle femministe alla “costruzione di sé come individualità che si pone…nella sua interezza” come “corpo pensante” è stata interrotta e fuorviata dalla permanenza nei paradigmi interpretativi maschili, che hanno impedito al pensiero delle donne il pieno recupero della corporeità vivente e delle qualità connettive ad essa inerenti, trattenendolo nel mondo maschile atomizzato, esageratamente conflittuale, astratto; prova ne sia la suddivisione in diversi orientamenti che, riproducendo ciascuno la parzialità dello sguardo maschile, sono impossibilitati a confrontarsi costruttivamente sia fra loro sia con chi, come la sottoscritta, si situa all’esterno.

La teoria del corpo pensante da me elaborata mostra che è possibile fare il salto di qualità, è necessario però riportare il processo conoscitivo che l’autocoscienza ha spostato “in prossimità del corpo”, al corpo vivente ed alla sua esperienza; bisogna che il pensiero delle donne non sostenga “lo strappo del pensiero maschile dalle sue radici biologiche”, ma ritrovi le “radici dell’umano” proprio nella biologia, meglio in una diversa concezione che le riconosca le reali caratteristiche di plasticità, variabilità e varietà senza le quali nessuna specie si sarebbe potuta mantenere sulla terra.

Le donne potranno trovare l’auspicata radicalità e il coraggio solo quando recupereranno pienamente la coscienza di ciò che esse hanno rappresentato e rappresentano per la specie, a cui assicurano in uno all’esistenza l’evoluzione della mente, e allorché si persuaderanno a restituire il giusto valore a ciò che loro fanno, denunciando con fermezza la profonda irrazionalità e l’abissale ignoranza insite nel disprezzo maschile per la natura vivente, la sola in grado di sentire, conoscere, agire.

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