Antropos28

Da Ortosociale.

ORIGINI DELLO STATO di Pietro Muni

Indice

ORIGINI DELLO STATO

Introduzione

L’uomo è naturalmente portato a vivere in piccoli gruppi, come famiglie e clan, ma è anche culturalmente dotato dei mezzi necessari per creare gruppi più estesi (tali sono la tribù, il domino, l’etnia, la stirpe, il popolo, la nazione e lo Stato). La tesi che cercherò di dimostrare è che i gruppi sociali più estesi rispetto alla famiglia non sono sempre esistiti, ma sono stati creati dall'uomo in funzione di certi vantaggi che essi offrivano.

Ai gruppi più piccoli (famiglia, banda, clan, tribù, dominio, protostati) ho dedicato il saggio Preistoria politica, nel presente lavoro mi limiterò a trattare della Nazione e dello Stato, che tra tutte le comunità umane sono le più recenti e più vaste, e lo farò seguendone l'evoluzione nel corso del tempo, convinto che così facendo potremo meglio coglierne il significato e la portata.

Sullo Stato disponiamo di innumerevoli opere, anche di alto livello, che ce ne illustrano ogni aspetto, talché un ennesimo saggio sull’argomento, per di più scritto da un dilettante, sembrerebbe del tutto fuori luogo. In realtà io non intendo aggiungere nulla di nuovo a quanto già espresso nelle opere esistenti ma, più semplicemente, partendo da esse, vorrei condividere col lettore un mio percorso di riflessione sulle modalità di formazione e di sviluppo degli Stati esistenti, sulle loro origini, sulle loro prerogative, sulla loro storia e sul loro futuro, nella convinzione che ciò possa tornarci utile per capire il presente e prefigurarci il futuro.

Il presente saggio dev'essere visto come il tentativo di un cittadino comune di spiegare a se stesso lo Stato attraverso la sua storia, ovvero ripercorrendo il processo, iniziato 7 milioni di anni fa, attraverso il quale gli Ominidi prima e il Sapiens poi, sono passati dalla famiglia allo Stato. Le tesi che cercherò di sostenere partono dai seguenti assunti: 1. Il fine primario degli Ominidi era quello di procurarsi le risorse necessarie per poter sopravvivere e riprodursi. 2. La natura ha dotato gli Ominidi di due principali mezzi per accedere alle risorse: a) la forza bruta che, insieme alla furbizia, consente ad un individuo di acquisire la risorsa anche contro la volontà contraria di altri individui; b) la socialità, che consente all’individuo di raggiungere lo stesso risultato per tramite di altri.

La legge del più forte, che è conosciuta da tutte le specie viventi, quelle vegetali comprese, stabilisce un principio molto semplice: il più forte mangia il più debole, oppure lo domina. Nel caso degli Ominidi questa legge da sola non poteva funzionare dal momento che era improbabile che un individuo fosse tanto forte da essere sicuro di vincere ogni competizione per l’accesso alle risorse, soprattutto nelle fasi estreme della sua esistenza (infanzia e vecchiaia). Ma non solo: perfino nella fase di massimo vigore fisico un Ominide era destinato a soccombere se fosse stato attaccato da un gruppo di cospecifici o da qualche predatore. Pertanto, se la natura avesse dotato gli Ominidi solo di forza fisica, essi non avrebbero avuto la benché minima probabilità di sopravvivere e la loro specie si sarebbe spenta sul nascere.

È per questo che la natura ha selezionato il sentimento prosociale, per rendere l’affermazione della famiglia e, a seguire, di società più complesse: banda, clan, tribù e Stato. Ma cosa sarebbe successo se la natura avesse dotato gli Ominidi solo di sentimento sociale deprivandoli della forza fisica? Anche in questo caso li avrebbe votato ad una fine precoce, perché, senza forza fisica, essi non sarebbero stati capaci di trasportare i loro piccoli, di arrampicarsi sugli alberi, di costruirsi rifugi, di estrarre i tuberi dal terreno o di scappare a gambe levate in caso di pericolo. Ecco allora che, opportunamente, la natura ha dotato gli Ominidi di entrambi i requisiti, forza fisica e sentimento sociale, in modo che gli effetti positivi e negativi di entrambi si bilanciassero rendendo possibile la sopravvivenza e la riproduzione.

Nel caso degli Ominidi, la legge del più forte ha operato sui membri di uno stesso gruppo, generando un’organizzazione gerarchica e facendo sì che il maschio alfa dominasse sugli altri ed avesse la precedenza nell’accesso a tutto ciò che era desiderabile (Lindauer 1993: 119ss), ma nello stesso tempo le spinte prosociali hanno fatto in modo che anche il più forte non tenesse tutto per sé e lasciasse che anche gli altri avessero una loro parte, consentendo così la formazione di gruppi coesi capaci di operare in modo solidaristico in vista di fini comuni. Il gruppo più semplice è la famiglia, il più complesso lo Stato.


La Famiglia

Il nostro racconto potrebbe iniziare così: «In origine c’era la Famiglia …». In effetti, la famiglia è stata presumibilmente la prima e unica forma di vita sociale dei nostri più lontani progenitori (Australopithecus e Homo habilis), entrambi africani: il primo è vissuto 7-4 milioni di anni fa e aveva una capacità cranica di 400-450 cc, il secondo fra 4-1,7 milioni di anni fa e aveva una capacità cranica di 600-700 cc. La famiglia fu lo strumento di sopravvivenza selezionato dal processo evolutivo per i primi ominidi, il cui cervello era appositamente programmato per questo scopo. "La missione del cervello è trasferire i propri geni alla generazione successiva" (Gazzaniga 2013: 74).

Anche se non disponiamo di dati documentali, è presumibile che le famiglie dei primordi non fossero monogame (dato che questa formula offriva insufficienti probabilità di sopravvivere ai loro piccoli), ma poligame. Possiamo immaginarle costituite da un maschio e 2-4 femmine, che, insieme alla prole, andavano a formare una piccola comunità di 5-20 individui, che vivevano delle risorse offerte da un territorio di 10-20 Kmq. Il peso maggiore della cura dei figli gravava sulla madre, almeno fino a quando il bambino aveva bisogno del suo latte. In pratica, una femmina dedicava tutta la sua vita, dalla pubertà in poi, all’attività generazionale, all’accudimento e all’educazione dei figli, e aveva perciò tutto l’interesse di stabilire rapporti sociali stabili e profondi non solo col maschio, ma anche con altre femmine, da cui avrebbe potuto ricavare sostegno nei casi non improbabili di difficoltà nella cura dei piccoli.

La coesione della famiglia era assicurata presso gli Ominidi da due diversi legami biologici (li chiamiamo così perché dipendevano da ormoni): l’attrazione sessuale fra gli adulti, che è regolata dagli ormoni maschili (soprattutto il testosterone e la vasopressina) e femminili (estrogeni e progesterone) e il legame parentale fra la madre e i suoi piccoli, che è regolato da altri ormoni, tra i quali spicca l'ossitocina.

Col Sapiens comparvero altri due legami: i legami di prossimità, che si sviluppavano spontaneamente fra tutti gli individui che vivevano in stretta vicinanza fin dall’infanzia, e una speciale apertura sociale delle femmine per tutti i cospecifici (indipendentemente da età e sesso), che si manifestava durante tutto il periodo della maternità ed era verosimilmente legata agli stessi ormoni che regolavano il rapporto madre-bambino, ma forse anche al sistema dopaminergico. Il vantaggio per la femmina era quello di procurarsi quanto più aiuto possibile nel suo arduo compito genitoriale, allo scopo ultimo di migliorare le probabilità di sopravvivenza dei piccoli, ma anche di se stessa. Questo legame rendeva in definitiva possibili unioni poliginiche e, in teoria, anche poliandriche, queste ultime però rese improbabili dalla naturale aggressività fra i maschi.

Se non fossero esistiti questi legami biologici, che tutti insieme costituivano quello che abbiamo chiamato sentimento sociale, la famiglia non avrebbe potuto sussistere in alcun modo, perché la legge del più forte lo avrebbe impedito.

Fra tutti i legami biologici, quello che riguarda la madre e il figlio bisognoso delle sue cure è così intenso che difficilmente può essere spezzato. “La nostra specie è dotata di istinti materni e protettivi così forti nei confronti dei figli da indurla a non trascurarli o abbandonarli tanto facilmente, quali che siano le loro condizioni” (Waal 2013: 117). Qualcosa di simile è possibile osservare presso gli altri mammiferi. Ed è qui, in questo particolare rapporto madre-figlio, che dobbiamo vedere il punto d’inizio del sentimento morale e della coesione sociale. Franz de Waal lo dice in modo chiaro: “almeno per i mammiferi, le cure materne sono la forma archetipa di altruismo, il modello per tutto il resto” (2013: 65).

Di norma i legami biologici tenevano a freno il principio di forza ma, in condizioni di scarsità estrema, essi potevano indebolirsi a tal punto da riportare in primo piano la legge del più forte. Insomma, quando era in gioco la sopravvivenza personale, il più forte mangiava e gli altri soccombevano: la legge del più forte era la legge sovrana di ultima istanza che regolava i rapporti fra gli uomini.

Nel Sapiens i legami biologici della famiglia si sono trovati a convivere con le maggiori capacità mentali di questo, innescando qualche problema. In effetti, il mescolamento genetico che si determinava nell’atto del concepimento faceva sì che ogni nuovo nato fosse sempre diverso da ogni altro sia per indole che per qualità fisiche e temperamento, e, anche se l’opera educativa dei genitori tendeva a conformarlo alla cultura del gruppo, ogni individuo poteva interpretare il mondo secondo una sua singolare logica ed esibire comportamenti e scelte parzialmente imprevedibili, e perfino contestare i valori della famiglia che lo aveva generato. Era dunque possibile, almeno in potenza, che un soggetto giungesse ad odiare un genitore o un fratello o il partner, anche se raramente nel paleolitico si dovette arrivare alla rottura del rapporto o all’aggressione fisica, perché gli interessi individuali quasi mai erano così forti da superare i legami biologici familiari.

Tra i piccoli il sistema ormonale deputato a suscitare i legami familiari (sesso, maternità e prossimità) non era ancora operativo e, pertanto, i rapporti tra fratelli erano regolati dalla legge del più forte. Ciascuno pensava per sé e nessuno si dava pena se la sua esuberanza e la sua voracità avessero comportato la morte di inedia di un fratello gemello. Dopo lo svezzamento, i piccoli divenivano più intraprendenti e imparavano a raccogliere e selezionare il cibo e affrontare i pericoli attraverso l’imitazione e, in genere, col sopraggiungere della pubertà, erano già in grado di proseguire la propria vita in modo indipendente. A quel punto il compito dei genitori poteva dirsi concluso e, infatti, il giovane si allontanava o veniva allontanato e doveva provvedere a se stesso, cercarsi una compagna, riprodursi, .... e così via all’infinito.

In linea di principio, all'interno della famiglia ogni membro era sovrano, libero di decidere se restare dentro o andarsene, se cooperare o sfruttare la situazione a proprio esclusivo vantaggio. In effetti, la famiglia non eliminava la legge del più forte e pertanto i soggetti più forti avrebbero potuto approfittare di quelli più deboli, ma di norma ciò non accadeva mai, perché i legami familiari si rivelavano più potenti delle spinte individualistiche. Il fatto è che la famiglia offriva a ciascuno dei suoi membri condizioni, tutto sommato, vantaggiose. Gli adulti trovavano in essa il modo di sfogare le proprie pulsioni sessuali, la femmina il suo istinto materno, il maschio si sentiva gratificato dal senso di potenza che gli derivava dal sentirsi fondamentale nel garantire condizioni di sicurezza all’interno del territorio per sé e le sue compagne, i piccoli trovavano già pronto ciò di cui avevano bisogno, ovvero cibo e protezione. Tutti davano qualcosa ricevendone di più. Perciò tutti sceglievano liberamente di assumersi responsabilmente il proprio ruolo e cooperare per il bene comune.

All’interno della famiglia i singoli individui non erano isole, ma nodi di relazioni sociale. Tutti operavano in condizioni di assoluta parità e avevano lo stesso valore. Tutti erano preziosi e insostituibili, perché ciascuno svolgeva un ruolo unico e necessario, da cui dipendeva il destino di tutti gli altri. Nessuno usava le sue abilità e la sua forza ad esclusivo vantaggio di se stesso, e fu questa la ragione del successo della famiglia. Fu l’azione corale, il «tutti-per-uno» e l’«uno-per-tutti», a decretare l’affermazione della famiglia. In effetti, la famiglia svolgeva funzioni (attività sessuale, riproduzione e cura dei piccoli fino al raggiungimento dell’età adulta), che nessuno dei suoi membri sarebbe stato in grado di svolgere da solo e che erano vantaggiose sia per il benessere psicofisico dei soggetti adulti che per la sopravvivenza della prole. La famiglia era, per definizione, un centro di cooperazione spontanea su basi biologiche fra tutti i membri componenti.

Tra le funzioni svolte dalla famiglia merita di essere ricordata la selezione precoce degli individui operata generalmente dalla stessa madre, la quale imparava presto a riconoscere i piccoli che avevano scarse probabilità di sopravvivere e per i quali non era vantaggioso investire energie e risorse. Così venivano presi in cura solo i piccoli sani, e ciò contribuì a migliorare le prospettive di sopravvivenza dei prescelti.

Per milioni di anni, la famiglia ha svolto con sufficienza le sue funzioni, ma il prezzo che ha dovuto pagare in termini di mortalità individuale è stato altissimo. In pratica, una donna doveva procreare una dozzina di individui per sperare che due o tre di loro potessero raggiungere l’età della riproduzione e assicurare così la sopravvivenza della specie. Il resto, ossia oltre l’ottanta per cento degli individui, era destinato a morire prima di potersi riprodurre.

In effetti, i limiti della famiglia erano rilevanti e vistosi. Basti pensare alla stretta dipendenza della sorte dei piccoli da quella dei genitori: la loro scomparsa o il loro indebolimento era sufficiente a decretare la fine dei piccoli. Un altro limite della famiglia riguardava la difficoltà di sfruttamento ottimale delle risorse: prima che nascano i piccoli, i due membri della coppia potevano muoversi più liberamente alla ricerca di cibo per due; dopo la nascita, la loro libertà di movimento diminuiva, mentre il fabbisogno aumentava. Ma forse il principale limite della famiglia è da individuare nella sua consistenza numerica: difficilmente, infatti, un nucleo genitoriale, anche se composto da un maschio e due-tre femmine, poteva generare un numero di minori viventi superiore a venti. La famiglia non poteva superare questo limite, a meno che non si fosse trasformata in altro, cosa che, come vedremo, in realtà avvenne.

Particolarmente drammatica doveva essere la fine naturale delle famiglie, che avveniva non per «vecchiaia» come ai nostri giorni, ma a causa della perdita delle funzioni familiari dei singoli membri. La femmina, dopo un lungo ciclo di gravidanze, perdeva la fertilità e non costituiva più un richiamo per il maschio, il quale a sua volta aveva perso il vigore fisico e intellettivo necessario per un adeguato controllo del territorio. Così i rapporti fra i partner si allentavano e la cura della prole diveniva meno efficace, con conseguente indebolimento generale dell'intero nucleo familiare, che probabilmente veniva finito dai predatori o da giovani maschi in cerca di un territorio in cui insediarsi. La famiglia era dunque una struttura assai fragile, facilmente vulnerabile e non sempre idonea a difendere i piccoli con successo.

La morte continuerà a rappresentare anche per il Sapiens un importante motivo di apprensione e, al tempo stesso, una potente spinta ad agire per aumentare le probabilità di sopravvivenza. Sarà con questa motivazione che egli imparerà a selezionare sempre meglio i cibi, ad affinare le tecniche di raccolta, a costruire ripari più sicuri, ad elaborare strategie di difesa più efficaci e a creare gruppi più estesi. Se dunque oggi l’uomo è l’incontrastato signore della terra, a mio giudizio, ciò non è dovuto alla famiglia in sé, ma al successivo sviluppo sociale, intellettivo ed emotivo che essa rese possibile.

La tesi che sosterrò nel presente saggio è che, spinto “dalla molteplicità dei suoi desideri e dai continui ostacoli che egli incontra[va] nei suoi sforzi per soddisfarli” (Mandeville 2000: 245), il Sapiens finì per superare la famiglia e creare strutture sociali più ampie e complesse. Io credo infatti che, se gli individui avessero trovato nella famiglia o grazie ad essa tutto ciò che desideravano, ovvero cibo e sicurezza illimitati, certamente non avrebbero accettato di creare comunità più estese che avrebbero comportato la necessità di un’organizzazione, di una gerarchia, degli obblighi e, in definitiva, di una sostanziale limitazione della propria libertà e del proprio valore come persona. In altri termini, se la famiglia avesse offerto un’adeguata garanzia in termini di sopravvivenza ai propri membri, non si sarebbe prodotta alcuna spinta in direzione di comunità più estese rispetto alla famiglia stessa.

La Banda

Fu necessario un cervello più evoluto perché i genitori si risolvessero ad accettare la compagnia dei figli anche dopo la pubertà, continuando a riconoscerli come figli a tutti gli effetti. Questa conquista divenne possibile solo con Homo erectus, anche lui vissuto in Africa tra 1,5 milioni e 100 mila anni fa, che era dotato di una scatola cranica di 900-1050 cc. Ne risultarono gruppi composti da 2-10 famiglie strettamente imparentate e comprendenti 20-100 individui, che vivevano all’interno di un territorio comune e, pur provvedendo alle proprie necessità ciascuna in modo autonomo, si riconoscevano come se fossero una sorta di famiglia allargata. Gli antropologi la chiamano «banda».

Perché potesse sussistere una comunità di banda dovevano concorrere le seguenti condizioni: la distribuzione spaziale delle famiglie doveva essere tale da consentire a ciascuna di esse se non il contatto visivo almeno uno scambio quotidiano di informazioni fra tutte le famiglie; l’intero territorio della banda doveva avere un’estensione tale da essere percorribile a piedi da un capo all’altro al massimo in un giorno, non doveva cioè superare i 100 Kmq; un territorio più vasto, infatti, avrebbe reso praticamente impossibile quel minimo di rapporti quotidiani che erano necessari per legare fra di loro tutti i membri della banda e farne un unico gruppo.

Sebbene la banda non fosse più una semplice famiglia, perché di fatto era costituita da più nuclei familiari, tuttavia i legami che tenevano uniti i singoli membri continuavano ad essere gli stessi che operavano all'interno della famiglia, ovvero i legami sessuali, parentali e di prossimità. Anche il funzionamento rimaneva lo stesso della famiglia, eppure la società di banda comportava dei significativi vantaggi per tutti. Rispetto alla famiglia, infatti, in virtù della sua superiorità numerica e della capillare distribuzione sul territorio, la banda aveva una maggiore capacità di sfruttamento delle risorse e di difesa, consentiva attività di caccia di animali di grossa taglia ed era meglio attrezzata per fronteggiare situazioni di pericolo. Inoltre, quando una femmina moriva durante il parto o il maschio dominante veniva predato, un’altra famiglia poteva intervenire e risolvere il grave problema dei superstiti. In definitiva, la banda costituiva una sorta di garanzia di seconda istanza per la sopravvivenza dell’individuo.

Come le famiglie, così le bande si spostavano continuamente alla ricerca di luoghi che offrissero acqua, pascoli e vegetali commestibili. Era la vita dei nomadi. Non avendo un luogo stabile di residenza, i nomadi continuavano ad ignorare il concetto di proprietà terriera o l’abitazione stabile: la loro casa era un semplice riparo naturale, che cambiava continuamente, a seconda delle esigenze del momento. Il cibo veniva consumato via via che veniva reperito: sotto questo aspetto, valeva il principio che ciascuno doveva pensare per sé, sia pure con delle eccezioni (per esempio, i bambini). Il grosso del cibo proveniva dalla raccolta, ma quando gli uomini riuscivano a catturare una preda di discrete dimensioni, i membri del gruppo si aspettavano che essa venisse spartita, e così di solito avveniva.

Un limite della banda può essere individuato negli stessi legami che tenevano coesi gli individui, i quali, proprio perché richiedevano una conoscenza e un contatto fisico costante e regolare, si opponevano all'espansione demografica e territoriale della banda stessa, che difficilmente poteva superare i 100 membri e i 100 Kmq. Un altro importante limite della banda era costituito dalla difficoltà di far fronte a situazioni di scarsità cronica, soprattutto se la presenza di altri gruppi confinanti impediva qualsiasi spostamento verso territori migliori. Ma questo avveniva solo nel caso, abbastanza improbabile 100 mila anni fa ma sempre più frequente in seguito, in cui la densità demografica raggiungeva livelli tali da obbligare le bande ad una vita stanziale. Quando ciò avveniva, i legami sociali rischiavano di indebolirsi pericolosamente, perché ogni famiglia, e talvolta anche ogni singola persona, potevano decidere di pensare solo alla propria sopravvivenza, spezzando così quei legami parentali che fino a quel momento avevano costituito un punto di forza del gruppo. Ma poteva anche accadere che i maschi e le femmine dominanti decidessero di razziare il territorio di una banda vicina oppure tentarne l’attraversamento alla ricerca di uno spazio libero in cui insediarsi, accettando ovviamente i relativi rischi. I primi posti ad essere occupati erano quelli più ricchi di risorse e poi, a decrescere, quelli meno favorevoli, mentre continuavano a rimanere disabitati solo i territori francamente inospitali, le aree impervie o montagnose, le zone desertiche o paludose, dove nessuna sopravvivenza appariva possibile. Nelle regioni sovraffollate un territorio poteva liberarsi solo se, per qualche ragione, perivano gli abitanti che vi risiedevano o se gli stessi venivano cacciati con la forza.


Il Clan

Secondo i dati scientifici più recenti, lo sviluppo evolutivo della neocorteccia non è legato alla necessità di incrementare le nostre prestazioni cognitive e mnesiche, ma a rendere possibile la costituzione di gruppi sociali più estesi. Il principio è: "più la neocorteccia è estesa, più è grande il gruppo sociale" (Gazzaniga 2013: 163). È stato calcolato che il cervello umano è dimensionato per consentire una vita in gruppi di circa 150 individui (Gazzaniga 2013: 163). Fu così che, in Africa, intorno a 100 mila anni fa, fece la sua comparsa il Sapiens, che siamo noi. Il suo (nostro) cervello di 1300-1400 cc. era adatto alla creazione di clan.

Il passaggio dalla società di banda a quella di clan non fu un evento rapido e di rottura, ma il risultato di un processo lento e graduale, che richiese decine di migliaia di anni: praticamente l’intero periodo del paleolitico medio. Finché ebbe spazi liberi da colonizzare, il Sapiens visse anche lui verosimilmente in società di banda, e ciò gli decretò un successo riproduttivo tanto modesto che gli occorsero decine di migliaia di anni per colonizzare l'intero Continente africano. Quando, 50 mila anni fa, il Sapiens giunse alle porte dell'Europa, pressappoco nella regione dell'attuale Israele, trovò la strada sbarrata dal Neandertal, l'uomo europeo, che viveva ancora in comunità di banda. Ben presto in quella regione la scarsità di spazi liberi fu tale da costringere le bande ad una vita stanziale e indurle a ottimizzare lo sfruttamento e la difesa del territorio al fine di garantirsi le migliori condizioni di sopravvivenza. La situazione di sovraffollamento fu tale che le bande dei Sapiens si trovarono a scegliere tra le seguenti tre alternative possibili: o si stabilivano fra loro rapporti solidali stabili e duraturi, o si facevano guerra fino all’ultimo sangue, oppure ciascuna banda doveva sperare che una banda confinante sparisse per una qualsiasi ragione. La selezione naturale selezionò la prima via e rese così possibile la creazione di piccoli clan. Questo punto va approfondito.

Se gli esseri umani fossero stati obbligati dai propri impulsi biologici a badare esclusivamente ai propri interessi personali e parentali, difficilmente l'uomo sarebbe andato oltre la società di banda. In realtà la selezione naturale riuscì a compiere il miracolo di conciliare egoismo ed altruismo in moda da poter conseguire due obiettivi apparentemente incompatibili: a) fare i propri interessi, b) creare società estese. La selezione naturale operò dunque su due livelli, individuale e collettivo, rendendo così possibile il superamento dei limiti indotti dai tenaci legami parentali. Questo è quanto emerge dal recente saggio di Edward O. Wilson La conquista sociale della terra (2013), dove si osserva che, accanto ad una selezione individuale, c'è anche una selezione di gruppo. "La selezione individuale è il risultato della lotta per la sopravvivenza e per la riproduzione fra i membri dello stesso gruppo e modella in ogni membro istinti che sono fondamentalmente egoistici in rapporto agli altri" (Wilson 2013: 269). "La selezione di gruppo modella istinti che tendono a rendere gli individui altruisti gli uni verso gli altri (ma non verso i membri di altri gruppi)" (Wilson 2013: 269).

Wilson E.O. non ha dubbi: "le fondamenta della teoria generale della fitness inclusiva basata sugli assunti della selezione di parentela sono crollate" (2013: 61). I più recenti dati scientifici depongono a favore di una selezione multilivello, non più limitata alla capacità riproduttiva e alla sfera parentale, ma estesa al gruppo sociale in quanto tale. "La selezione multilivello è fatta dell'interazione fra le forze selettive che prendono di mira i tratti dei singoli membri e altre forze selettive che prendono di mira i tratti di tutto il gruppo" (Wilson 2013: 63). "Formare gruppi, ricavando conforto viscerale e orgoglio dallo spirito cameratesco che s'instaura, e difendere a spada tratta il proprio gruppo dai gruppi rivali: ecco due tratti universali della natura umana e quindi della cultura" (Wilson 2013: 69). Le due forme di selezione riescono a convivere all'interno della persona: "Ogni membro di una società possiede geni i cui prodotti sono interessati dalla selezione individuale e altri geni interessati, invece, dalla selezione di gruppo" (Wilson 2013: 271). Entrambi questi geni comportano vantaggi per le persone: "gli individui egoisti hanno la meglio sugli individui altruisti mentre i gruppi di altruisti sconfiggono i gruppi di individui egoisti" (Wilson 2013: 271). Il massimo vantaggio per una persona proviene dall'equilibrio che si stabilisce tra queste due forze antitetiche.

Possiamo ora ritornare ai nostri antenati. In risposta alla carenza di spazi liberi e alla scarsità delle risorse, i Sapiens fecero la cosa più sensata: sfruttarono al meglio le risorse del territorio e ne potenziarono la difesa. A tale scopo le singole famiglie si distribuirono capillarmente nel territorio, occupando le sedi più strategiche, anche in vicinanza del confine, a costo di perdersi di vista. Ora, quanto più le famiglie si allontanavano, tanto più i loro rapporti si indebolivano, e, quando due famiglie si trovavano a vivere in luoghi distanti più di 5 Km, diveniva possibile che alcuni dei suoi membri non si incontrassero mai e maturassero proprie esperienze, proprie consuetudini e certe, per quanto piccole, differenze di linguaggio. Inoltre, mentre si allentavano i legami fra famiglie imparentate, acquistavano maggiore rilevanza i rapporti di vicinato e non era raro che due famiglie di confine, appartenenti a due bande diverse, stabilissero fra loro rapporti di pari livello, se non più stretti, tra quelli che le legavano due famiglie lontane della stessa banda, fino al punto di convincersi di discendere da un medesimo antenato e di appartenere dunque alla stessa famiglia. Si affermava così la società di clan, 50 mila anni fa nel Vicino Oriente. Il clan consentì al Sapiens di affrontare con successo il grave problema del sovraffollamento. Alcuni clan si avventurarono verso la Penisola arabica, da cui proseguiranno verso l'Asia, mentre altri clan iniziarono a fare pressione sui Neandertal. Ma cos’era in definitiva un clan? E perché la società di clan rappresentò un passo in avanti rispetto alla banda? A queste domande cercherò di dare una risposta qui di seguito.

Il clan costituì la principale forma di vita sociale del Sapiens nel periodo compreso fra 50 e 40 mila anni fa e fu la prima forma di società a non essere più fondata unicamente sui legami naturali, ma anche su fattori culturali e simbolici, che richiedevano un cervello capace di prestazioni adeguate. Il Sapiens aveva quel cervello e proprio per questo, per la prima volta, si rendeva conto di vivere in un mondo in cui tutto poteva accadere e dove era impossibile prevedere il futuro, un mondo in cui ogni individuo è “sempre in bilico fra vita e morte, salute e malattia, ricchezza e miseria, distribuite nella specie umana da cause segrete e sconosciute, che operano spesso in modo inatteso sempre inesplicabile” (Hume 1994: 59). Dovette essere proprio la consapevolezza di questa incertezza, insieme alla drammatica esperienza quotidiana della morte, a spingere il Sapiens, intorno a 45 mila anni fa, a sviluppare una forma di interpretazione simbolica dei fatti, un’elaborazione ideologica della realtà, ovvero un pensiero religioso.

Grazie al pensiero simbolico, nel clan potevano convivere famiglie e bande estranee, che però si comportavano «come se» fossero imparentate, «come se» fossero una sola famiglia, perché si riconoscevano discendenti da uno stesso progenitore, sia pure idealizzato e di fatto inesistente, che veniva quasi sacralizzato e anticipava l’affermazione della figura divina e del culto religioso vero e proprio, che, come vedremo, sarà alla base della società tribale.

Il clan costituiva dunque il prodotto della fusione di più bande, che si riconoscevano unite da un Soggetto simbolico comune, in genere un antenato, e si comportavano come se fossero un’unica famiglia. Inizialmente composti da 100-500 membri, che controllavano un territorio fino a 500 Kmq, col passare del tempo i clan superarono tranquillamente queste cifre. Così, nelle fasi più mature, intorno a 40 Kyr fa, un clan medio-grande doveva comprendere da sei a ottocento individui, insediati in territorio esteso fino a mille Kmq, vale a dire una popolazione 6-8 volte più numerosa di quella di banda.

A differenza della banda, nel clan non era necessario che ci fossero rapporti quotidiani fra tutte le famiglie, ma era sufficiente che questi rapporti fossero possibili anche e con una regolarità periodica, in modo tale che due maschi in perlustrazione si riconoscessero, altrimenti si sarebbero comportati da estranei. Mille Kmq rappresentavano un’area ancora sufficientemente piccola da poter essere percorsa da un estremo all’altro da uomini che si muovevano a piedi, ma abbastanza grande da fornire una certa variabilità di risorse: zone pianeggianti e collinari, montagne rocciose e verdi vallate, laghi e fiumi, prati e boschi, paludi e terreni aridi vi potevano essere variamente rappresentati e potevano ospitare una flora e una fauna sufficientemente varie da soddisfare il bisogno di cibo del clan, anche nel caso in cui una qualche calamità naturale, come un incendio, una grandinata, un forte vento o lo straripamento di un fiume, vi avessero determinato delle ferite. Un territorio più esteso avrebbe reso problematica una regolare frequentazione delle famiglie e ciò avrebbe impedito lo svilupparsi della coscienza di clan. Perciò i clan non dovettero mai superare questo limite spaziale.

I clan non si sentivano legati ad un determinato territorio, ma non esitavano a spostarsi ogni qualvolta la situazione lo richiedesse. In sostanza, essi non dovevano vivere in modo tanto diverso da quello di popoli nomadi ancora oggi esistenti, come i !kung san. "I !kung vivono in piccoli gruppi che spostano l'accampamento ogniqualvolta le riserve alimentari si esauriscono. Tutti i beni di una famiglia [...] stanno in due borse. Non fanno scorte [...]. La terra è una proprietà comune: quasi tutto è condiviso, a iniziare dalla carne che un cacciatore si procaccia [...]. Dato che le comunità !kung sono rigorosamente egualitarie, non esiste alcuna autorità preposta a risolvere le controversie e a mantenere l'ordine" (Wade 2007: 88-90). Il clan dunque ignorava l’idea di proprietà privata. La terra era di tutti e nessuno possedeva alcunché a titolo personale, fatta eccezione delle proprie qualità individuali, anche se, lo abbiamo visto, perfino queste dovevano essere messe a disposizione del gruppo. Non c’era nemmeno la mentalità di costituire riserve alimentari e gli stessi alloggi, così come l’abbigliamento, erano rudimentali e non costituivano certo un bene da desiderare o rivendicare.

Anche la logica del potere era sconosciuta al clan. La società di clan non conosceva ancora la gerarchia sociale, tutti vivevano in condizioni di uguaglianza e nessuno comandava su un altro. Non c’era un capo e nessuno, ad eccezione dei bambini, doveva obbedienza ad alcuno. Le decisioni comuni venivano prese da tutti o da colui che, in quel particolare momento e per quel particolare compito, sembrasse più adatto. L’organizzazione sociale era debole e, in teoria, le singole famiglie erano autonome e indipendenti; ciascuna aveva il medesimo peso politico all’interno del clan; non c'erano classi sociali, né ricchi né poveri, né liberi né schiavi; le distinzioni sociali erano basate principalmente sull’età (bambini, adulti e anziani), sul sesso (maschi e femmine), sul grado di parentela (madre, figlio, fratello, estraneo) e sull’appartenenza (fratelli di clan, stranieri), ma in nessun caso erano interpretabili come differenze di status o di classe; non c’era spazio per la «scalata al potere» da parte di un individuo o di una famiglia. Esistevano certo i leader, che erano i membri riconosciuti più capaci o semplicemente i più anziani, ma essi non esercitavano un potere ben definito e primeggiavano più con la persuasione che con la forza. Il vero potere sovrano risiedeva nel consenso e nessuno era tanto forte da osare sfidare il giudizio della collettività. Per chi avesse perso il consenso non restava che l’infamia, la gogna, l’esilio, la morte. Una società orizzontale, dunque, tale era la società di clan, nella quale il singolo, essendo altamente sensibile a ciò che gli altri si aspettavano da lui, metteva il frutto della propria opera e del proprio talento a disposizione della collettività in un’ottica di solidarietà parentale.

Le donne svolgevano ruoli fondamentali e insostituibili, che andavano dall'atto generativo alla cura della prole, dall'educazione dei figli alla coesione sociale, cui si aggiungevano ruoli meno determinanti, ma anch’essi sicuramente importanti, come la raccolta e la distribuzione del cibo. In particolare, le madri avevano interesse a cooperare fra loro sia per ragioni di difesa, sia per potersi surrogare vicendevolmente in caso di necessità. Da sola, infatti, una madre era estremamente limitata e vulnerabile: se aveva poco latte i suoi figli andavano incontro al rischio di denutrizione e se era attaccata da un predatore la sua fuga era attardata dalla presenza dei piccoli. Solo la coesione sociale offriva alle madri e ai loro piccoli le maggiori probabilità di sopravvivenza. Di norma, perciò, le femmine in età fertile trascorrevano gran parte della propria esistenza all’interno del campo base o nelle sue immediate vicinanze, insieme ai piccoli, ad altre femmine e ai soggetti più anziani in condizioni fisiche imperfette.

Questi ruoli della donna erano controbilanciati dalla maggiore attitudine degli uomini ad esplorare il territorio. I maschi adulti, infatti, avendo meno impedimenti ed essendo più liberi di muoversi, non di rado si allontanavano dal campo base, da soli o in compagnia, spinti da un qualche interesse, ma non esitavano ad invocare l'aiuto di altri qualora ritenessero di dover dare la caccia ad una preda di grossa taglia o per qualche altra valida ragione. La caccia rappresentava una fonte di cibo in aggiunta alla raccolta, ma anche un ulteriore fattore di aggregazione. Il suo limite era la discontinuità e l'apporto quantitativamente limitato di cibo rispetto alla raccolta. Il cacciatore divideva la preda catturata con gli altri membri del clan perché sapeva che un giorno le parti si sarebbero potute invertire. La selvaggina veniva divisa fra i membri delle singole famiglie, probabilmente non in parti esattamente uguali, ma a ciascuno secondo le sue particolari esigenze e nel rispetto dei princìpi della solidarietà parentale, dell’altruismo reciproco e dell’etica sociale del momento.

Abitualmente i maschi adulti percorrevano l’intero territorio da un capo all’altro non solo in cerca di cibo, ma anche per mantenere i contatti con gli altri gruppi e scambiarsi informazioni, per es. su una sorgente d’acqua appena scoperta, sull’individuazione di tracce di un animale ferito, sui rapporti coi clan vicini, su avvenimenti interni alle singole famiglie, come una nascita o una morte, e via dicendo, e non esitavano ad unirsi non solo per condurre una battuta di caccia grossa, ma anche per far fronte ad un nemico esterno o alla presenza minacciosa di predatori. Casi di conflitti interni fra clan dovevano essere poco probabili finché ci furono sufficienti spazi liberi dove muoversi.

Un po' più difficile è immaginare i ruoli svolti da bambini e anziani. La cosa più facile da pensare è che i bambini si comportassero secondo l’età: fino ai due anni restavano legati alla madre, dopo cominciavano ad allontanarsi progressivamente da lei trascorrendo la giornata prevalentemente nel gioco, nell’imitazione degli adulti e nell’esecuzione di comandi. Gli anziani dovevano costituire un caso a sé. Verosimilmente, in parte essi costituivano un peso per il gruppo, ma nondimeno è possibile che venissero apprezzati per la loro lunga memoria e la loro maggiore esperienza, che potevano tornare di grande utilità per il gruppo. In sostanza, è possibile che l’anziano venisse visto come il depositario di una conoscenza superiore, e il fatto non dovrebbe sorprendere, se si considera che ci troviamo in una società dove la memoria dei padri veniva trasmessa da una generazione all’altra per via rigorosamente orale. È plausibile pensare che la figura dell’anziano e il suo specifico ruolo acquistassero particolare rilevanza nei momenti critici, allorché un plus di conoscenza poteva rappresentare un fattore determinante per la sopravvivenza.

Il principio della forza fisica dell'individuo continuava ad essere presente e operante. Il più forte poteva certo approfittare del più debole per i più svariati motivi (opportunismo, affermazione di ruolo, gioco, malvagità, e altro), ma non avrebbe mai impresso al proprio comportamento un carattere continuativo e aperto per paura di essere giudicato negativamente dagli altri ed espulso dal clan. Nessuno, infatti, poteva ritenersi tanto forte da poter fare a meno degli altri e, isolatamente, anche il più forte vedeva drammaticamente ridotte le proprie probabilità di sopravvivere. A nessuno, dunque, conveniva opporsi al gruppo e tutti dovevano scendere a patti con esso. Né era facile bluffare. Infatti, tanto a livello di famiglia quanto a livello di clan ci si conosceva a tal punto da rendere pressoché impossibile attuare un inganno sistematico.

All'interno del clan la «legge del gruppo» era superiore alla legge della forza e la buona reputazione aumentava le probabilità di sopravvivenza più che il tentativo di imporsi menando le mani o minacciando di farlo. Pertanto chi, approfittando di un favorevole squilibrio di forze, commetteva un’ingiustizia ai danni di chiunque altro e a proprio vantaggio, era indotto dal gruppo a provare vergogna e ad esibire una condotta riparatrice. Perfino il più forte doveva, dunque, inchinarsi di fronte a questa legge suprema e scendere a patti con gli altri, far loro delle concessioni, dividere con loro la sua preda, mimetizzare la sua forza dietro forme comportamentali che favorissero la vita sociale. “Nella società dei cacciatori-raccoglitori non esistono maschi alfa, in altre parole non c’è un maschio dominante di rango elevato che decida che cosa farà e dove andrà il gruppo” (Stanford 2001: 164). In queste società “Il consenso è tutto” (Stanford 2001: 167). Lo stesso fenomeno poteva essere osservato anche presso alcune specie animali. “Scimpanzé e bonobo rispettano le cose di proprietà altrui, in modo tale che persino il maschio di rango più alto può trovarsi a mendicare cibo. È raro il caso che degli individui dominanti si approprino con la forza del cibo di un altro, e chi viola i codici si imbatte in una strenua resistenza” (Waal 2013: 198).

Nella società di clan l’altruismo e la cooperazione ripagavano più che l’egocentrismo e, il più delle volte, la forza veniva usata al servizio del gruppo e la solidarietà trionfava. Non si avvertiva ancora l’esigenza di un diritto formale, ma erano già presenti tutte le premesse per una sua successiva affermazione. Abitualmente i conflitti che si sviluppavano in seno al clan venivano affrontati secondo l’ottica delle regole consuetudinarie del gruppo, come il rispetto dei confini, il tabù dell’incesto, gli obblighi di solidarietà e l’obbedienza alla volontà divina. Se uno si sentiva offeso da un cugino, poteva contare sull’aiuto dei suoi fratelli mentre, se era minacciato da un estraneo, era tutto il clan ad assumersi la sua difesa: nel primo caso poteva aver luogo una faida, nel secondo caso uno scontro fra clan.

A queste condizioni vennero premiati gli uomini che avevano imparato a fidarsi tra loro e a rendere così possibile la cooperazione sociale. Se fossimo stati onnipotenti, o più semplicemente autosufficienti, non ci saremmo nemmeno chiesti se fosse il caso o meno di avere fiducia negli altri. La fiducia negli altri tradiva la condizione di debolezza del Sapiens. È come dire: ho talmente bisogno degli altri che non posso permettermi il lusso di diffidare di tutti. "Nessuno è sufficientemente potente per fare a meno degli altri. E, per vivere insieme, bisogna imparare a contare sugli altri e a fidarsi di loro" (Marzano 2012: 208). "La fiducia è legata alla natura stessa dell'esistenza umana, al fatto che non siamo mai completamente indipendenti dagli altri e autosufficienti" (Marzano 2012: 162).

Dare fiducia era per il Sapiens un modo di rendere possibile l'azione comunitaria e solidale. Certo, un individuo avrebbe potuto pentirsi di aver accordato la propria fiducia a qualcuno, ma ci sarebbe sempre stato qualcun altro che avrebbe ricambiato la sua fiducia, ripagandolo delle sue delusioni. Era una questione di calcolo, che alla fine aveva sempre un saldo positivo. Dal codice etico dipendeva la coesione del gruppo e da questa dipendeva, in definitiva, la stessa sopravvivenza del singolo. Ecco perché “Noi siamo animali sociali che fanno affidamento uno sull’altro, che hanno bisogno l’uno dell’altro, e che perciò traggono piacere dall’aiutare e dal condividere” (Waal 2013: 67).

A poco a poco l’uomo imparò a definire «buoni» i comportamenti prosociali, «cattivi» i comportamenti antisociali. Da qui sarebbe nato, secondo Franz de Waal, il nostro comportamento morale. “La morale serve a diffondere i benefici della vita di gruppo” (Waal 2013: 285). Essa non deriva dalla religione, ma dall’istinto di sopravvivenza. La religione verrà dopo e potrà affermarsi proprio perché gli uomini avevano già un senso morale. “La morale ebbe origine per prima, e la religione moderna si agganciò a essa. Invece di trasmetterci la legge morale, le grandi religioni sono state inventarle per sostenerla” (Waal 2013: 289).

“La morale è un sistema di regole concernente i due aspetti dell’aiutare o almeno del non danneggiare i nostri simili. Si preoccupa del benessere degli altri e antepone la comunità all’individuo. Non nega l’interesse individuale, ma lo ridimensiona a vantaggio di una società fondata sulla cooperazione” (Waal 2013: 191). Essa si sarebbe sviluppata “dalla sensibilità verso gli altri e dalla comprensione del fatto che per cogliere i benefici della vita di gruppo occorre la disponibilità ad accettare compromessi e a prendere in considerazione i bisogni degli altri” (Waal 2013: 201).

Il bisogno di tenere unito il gruppo non è esclusivo dell’uomo. Anche certi animali, infatti, “attribuiscono un grande valore alla fiducia e alla cooperazione” (Waal 2013: 24). E si comportano di conseguenza. Il motivo è lo stesso: il comportamento prosociale comporta dei vantaggi ai fini della sopravvivenza. “Studi sui babbuini hanno dimostrato che le femmine che hanno rapporti di amicizia sopravvivono a quelle che non ne hanno, e allevano più figli” (Waal 2013: 198). Presso gli umani, tuttavia, il bisogno di costruirsi una reputazione ha raggiunto “un livello non eguagliato da alcun comportamento simile osservato nelle scimmie antropomorfe” (Waal 2013: 215).

Ciò però non impedì al Sapiens di continuare ad esibire entrambi i tipi di comportamenti: quelli cattivi, a favore solo di sé, quelli buoni a favore di altri. Per una ragione molto semplice: entrambi i tipi di comportamenti avevano aspetti vantaggiosi per il singolo. L’importante era non esibire uno dei due in forma esclusiva, ma mantenere i due comportamenti in equilibrio fra loro. Ecco perché Franz de Waal ha potuto affermare: “Si può considerare l’uomo o intrinsecamente buono ma capace di fare il male o intrinsecamente cattivo ma capace di fare il bene” (2013: 51).

Riepilogando. Il clan fu un prodotto del pensiero simbolico e rappresentò il punto più alto dell’evoluzione naturale e spontanea delle specie «Homo», ma il suo funzionamento ricalcava ancora quello della famiglia e ne conservava tutti i limiti. Ciò però si rivelò sufficiente a consentire la formazione di gruppi alquanto più estesi rispetto al passato, il che rese possibile un miglioramento dello sfruttamento e della difesa del territorio. I vantaggi della società clanica furono tali da consentire al Sapiens di diffondersi in modo quasi capillare dell’Africa e dell’Eurasia, ma non tali da conferirgli una netta superiorità rispetto ad altre specie animali. Di certo essa segnò la fine della condizione prettamente animale dell’ominide e l’inizio della nostra storia. Potremmo dire che la società clanica rappresentò il capolinea di una particolare linea evolutiva naturale, ed oggi saremmo probabilmente ancora fermi sullo stesso punto se le capacità del nostro cervello di procedere per via simbolica non ci avesse dischiuso l’orizzonte dell’evoluzione culturale.


La Tribù

Nel corso del Paleolitico inferiore la specie umana era diffusa su tutto il pianeta e, alla fine, nessuna terra fu più in grado di fornire tutto ciò di cui l’uomo aveva bisogno (Erodoto I 32,8). La nuova sfida poteva essere affrontata con successo solo gettando lo sguardo oltre i propri confini territoriali e guardando alla terra dei vicini: spesso, ciò di cui un gruppo era carente un altro gruppo lo possedeva in abbondanza. Cosa fare allora? Le soluzioni possibili erano due: o si cercava di espropriare gli altri dei loro beni attraverso azioni di forza, oppure si tentava la via dell’accordo pacifico e dello scambio commerciale. Insomma, ci si doveva barcamenare fra l’esigenza di depredare e quella opposta di creare rapporti solidali con i gruppi vicini. I due comportamenti procedettero affiancati nel corso dei millenni, potendo prevalere ora l’uno ora l’altro.

Fu con l’affermazione del linguaggio simbolico e lo sviluppo dell’autocoscienza che l’uomo cominciò a vedere lo stesso ambiente con occhi nuovi. In particolare, egli trovò minacciosi certi eventi naturali e, per la prima volta, avvertì un senso di paura e il bisogno di essere rassicurato. Lo sciamano e la religione risposero egregiamente a questo bisogno e il dio divenne la figura causale e responsabile, nel bene e nel male, di ogni evento. Se tutto era riconducibile ad un dio e tutto gli apparteneva, non restava che affidarsi a lui e sottoporsi alla sua volontà, che gli uomini potevano conoscere per mezzo dello sciamano. In qualità di interlocutore privilegiato del dio, lo sciamano incarnava da una parte l’ingresso dell’elemento religioso nelle vicende umane, dall’altro costituiva il primo esempio di divisione del lavoro su basi culturali. Durante il Paleolitico inferiore, tuttavia, lo sciamano non svolgeva ancora un ruolo sociale stabile e acquistava potere solo nei momenti difficili.

In sostanza, la società tribale si fondava su un’idea fino a quel momento affatto sconosciuta, l’idea di appartenenza religiosa, in virtù della quale i membri di una comunità cominciavano ad identificarsi in rapporto ad un dio e potevano dire: «Noi apparteniamo alla stessa comunità perché crediamo nello stesso dio e ci sentiamo fratelli perché siamo figli di quel dio». Che non si trattasse più di una famiglia naturale era testimoniato dal fatto che i legami sociali non erano più nemmeno fittiziamente di tipo parentale e, in effetti, la tribù non funzionava più come una famiglia, anche perché era costituita da tante famiglie e tanti clan, che avevano coscienza della propria diversità (ciascuno di loro poteva avere un proprio particolare idioma e un proprio dio) e si sentivano soggetti sovrani, ovvero liberi di decidere per sé. Nella tribù i rapporti fra persone estranee erano regolati dalla volontà del dio, la quale a sua volta era nota solo allo sciamano e poteva cambiare, sicché, alla fine, ciascun clan e ciascuna tribù poterono sviluppare modelli sociali diversi, e questo finì per favorire l'emergere del principio di forza, che fino allora era stato efficacemente controllato dai fattori di coesione sociale biologici.

L’affermazione della tribù non decretò la scomparsa del clan, che anzi rimaneva un elemento sociale più vivo che mai e, tutto sommato, ancora sovrano, visto che poteva, solo esso, nell’arco di poche ore, muovere tutti i propri membri verso una determinata meta, per esempio alla ricerca di luogo migliore o all’attacco un altro clan. In effetti, come vedremo, non di rado le decisioni di un clan si riveleranno determinanti per il successivo svolgersi degli eventi. A maggior ragione non poteva scomparire nemmeno la famiglia, la cui funzione riproduttiva appariva imprescindibile e fuori discussione. Tuttavia, non dovendo più sopportare in esclusiva la responsabilità di garantire la sopravvivenza dei singoli individui, essa fu libera di assumere molte forme diverse. Dal momento che, da sola, una famiglia non aveva una forza sufficiente a far valere la propria sovranità, essa non poté fare altro che vivere all’ombra del proprio clan e seguirne il destino. La società di banda invece fu svuotata di ogni funzione e praticamente scomparve.

La tribù fu la prima forma di comunità realizzata coscientemente dall'uomo su basi prettamente culturali, ed è per questo che essa dev’essere considerata la prima forma di società di tipo propriamente umano. Poteva comprendere migliaia di membri raggruppati in clan, che tendevano a disporsi secondo un ordinamento gerarchico dipendente dai rispettivi rapporti di forza e quello di loro che era più numeroso o meglio organizzato imprimeva il proprio marchio all’intera tribù. Ma poiché i rapporti di forza variavano continuamente, non era facile pervenire ad una organizzazione sociale solida, sicché le tribù erano, di fatto, società instabili e sempre in bilico tra il desiderio di ritornare alle condizioni di piena libertà tipiche del vecchio clan e la volontà di darsi un ordinamento sociale saldo e ben definito. La prima tendenza prevaleva nei periodi di benessere, allorché i singoli gruppi familiari vivevano autonomamente, mentre nei momenti di crisi la tribù si dimostrava più disposta a compattarsi e ad accettare una disciplina comune.

Uno dei principali vantaggi apportati dalla società tribale fu l'ampliamento dei limiti territoriali del clan. In effetti, non era più necessario che gli uomini di una tribù si incontrassero fisicamente con una certa regolarità, ma era sufficiente che due individui parlassero la stessa lingua o condividessero la fede nello stesso dio perché si riconoscessero affini, anche se in precedenza non avevano mai avuto l’occasione di incontrarsi. Teoricamente non c’erano più limiti prestabiliti né per l’estensione territoriale né per la consistenza demografica di una tribù, ma in pratica territori più estesi di 5 mila Kmq rendevano improbabile l’unità di lingua o di religione. Di fatto la comunità tribale non solo continuava ad avere limiti territoriali (e quindi anche demografici), ma continuava a praticare laddove possibile il nomadismo.

Agli inizi la società tribale non presentava sostanziali elementi di distinzione rispetto alla società di clan che l’aveva preceduta. In effetti, la vita quotidiana dell’uomo tribale continuava ad essere molto simile a quella dell’uomo clanico: entrambi continuavano a praticare la caccia e la raccolta, non costituivano riserve alimentari e costruivano i loro utensili e le loro armi con prodotti che trovavano in natura. La società rimaneva dunque di tipo egalitario e al suo interno ciascun gruppo familiare o clanico poteva vivere in modo autonomo, libero di prendere qualsiasi decisione e anche di intavolare rapporti di qualunque genere con altri gruppi. Le singole famiglie avevano un eguale potere e il medesimo peso politico all’interno della tribù: le disuguaglianze ammesse erano quelle legate al sesso, all’età e alle capacità individuali. Alle donne veniva riconosciuto “solo un ruolo riproduttivo” (Arioti 1991: 614), mentre verosimilmente gli anziani continuavano ad essere visti come fonte di conoscenza e modelli di saggezza e, riuniti in Consiglio, guidavano la tribù e prendevano le decisioni nei momenti di maggiore difficoltà, ma non disponevano di un apparato coercitivo in grado di imporre la propria volontà. Faceva eccezione la figura dello sciamano, che poteva acquistare speciali poteri nei momenti di crisi e di pericolo. Abitualmente, ciascun gruppo familiare provvedeva ai propri bisogni senza chiedere nulla agli altri, ma la situazione mutava in caso di eventi avversi, allorché diverse famiglie e perfino l’intera tribù potevano stringersi intorno alla figura dello sciamano. Lo stesso accadeva per le tribù confinanti, che, di norma, vivevano in modo autarchico, ma che, all’occorrenza, erano disposte ad unirsi contro un nemico comune. “I nomadi sono molto individualisti. Tuttavia stringono alleanza, se qualche cosa li minaccia, ma solo allora” (Vardiman 1998: 226).

Rispetto alla società clanica, la società tribale non offriva sostanziali vantaggi e, infatti, per i singoli individui la vita continuava come sempre, con una bilancia demografica che pendeva in direzione di una lenta crescita. I vantaggi della società tribale erano solo potenziali ed consistevano soprattutto nel fatto che, in caso di pericolo, non solo un’intera tribù, ma anche più tribù potevano unirsi sotto un capo e costituire così una forza capace di compiere imprese fino allora inimmaginabili. Le occasioni perché si verificassero simili eventi divennero particolarmente frequenti nel corso del Mesolitico (12-8 mila anni fa), quando ormai il Sapiens aveva colonizzato l’intero pianeta dando vita a due ben distinte realtà geopolitiche: le regioni più fertili ospitavano molte tribù che si trovarono a vivere a stretto contatto e in forma stanziale e dovettero affrontare sfide inedite; le aree più aride e disagevoli rimasero scarsamente abitate e divennero la patria dei nomadi.

La funzione dello sciamano risulterà particolarmente importante e incisiva nelle comunità agricole che, essendo le uniche a disporre di un surplus, avranno necessità di mettere ordine nelle tecniche di produzione, di conservazione e amministrazione dei beni, ma soprattutto in quelle relative alla difesa. Sotto ognuno di questi aspetti le tribù potranno presentare differenze anche notevoli, che daranno luogo a politiche e storie molto diverse fra loro. In particolare alcune tribù svilupperanno politiche di tipo egalitario, distributivo e difensivo, accontentandosi di quello che riusciranno a produrre e sviluppando un’economia minimalista, che consentirà loro di vivere in modo semplice e autarchico. Altre, invece, si organizzeranno in modo verticistico e svilupperanno politiche predatorie, ritenendo più semplice e remunerativo vivere delle risorse altrui piuttosto che produrle da sé. Ma su tutto ciò avremo modo di ritornare.


Il Villaggio

Finché la terra fu scarsamente popolata, i gruppi umani poterono scegliere il luogo in cui insediarsi ed espandersi a macchia d’olio senza dover ricorrere alla forza, ma poiché, nel corso del Mesolitico, la popolazione umana ebbe “ormai raggiunto tutte le regioni del mondo, tranne le più inaccessibili” (Sykes 2003: 145), e cioè le isole della Polinesia, il Madagascar, l’Islanda e la Groenlandia, divenne sempre più difficile trovare luoghi ospitali liberi e, sempre più frequentemente, si rese necessario accettare il rischio o di lunghi e avventurosi viaggi in cerca di luoghi lontani e sconosciuti o relazionarsi con altre tribù allo scopo di cooperare, competere o confliggere. Ebbene, la società tribale disponeva dei requisiti necessari ad affrontare con successo tutte queste opzioni, le quali, da parte loro, la inducevano a darsi un’organizzazione sempre più solida e ad avviare profondi cambiamenti culturali idonei a tenere il passo coi tempi. Il principale fattore di cambiamento fu rappresentato dalla scoperta dell’agricoltura, che rese possibile la disponibilità di un surplus, la vita stanziale e l'incremento demografico, il che obbligò le tribù a vivere a stretto contatto, a relazionarsi, a conoscersi e a scambiarsi beni e cultura. In particolare, lo scambio delle conoscenze tecnologiche favorì la realizzazione di utensili e armi sempre più efficienti, con conseguente maggiore produzione di risorse, miglioramento delle condizioni di vita e ulteriore incremento demografico.

Furono queste le premesse per la costruzione dei primi villaggi, che cominciarono a sorgere proprio là dove un tempo c’erano dei semplici campi base e che segnava la rottura dell’equilibrio natura/cultura a favore di quest’ultima. Coi villaggi iniziava l'era della vita sedentaria. Le prime abitazioni permanenti avevano forma semplice, di solito quadrangolare, ed erano costruite con materiale deperibile, come legno, pelli animali e fibre vegetali. In prossimità del villaggio, si potevano scorgere sempre più estesi campi coltivati ad orzo o a grano, il cui prodotto rendeva possibile, per la prima volta, la costituzione di significative riserve alimentari. La novità più importante della società di villaggio era che, per la prima volta, in uno spazio di poche migliaia di metri quadri, potevano convivere più di cento persone accomunate non soltanto da legami parentali, ma anche e soprattutto da affinità culturali.

Fra le principali conseguenze della nuova società vi fu una più netta e codificata divisione dei compiti, pur sempre nel rispetto dell’ordine naturale. Le donne con prole da allattare erano i soggetti maggiormente limitati nelle loro possibilità di movimento e pertanto rimanevano legate al cuore del villaggio (o in altri luoghi protetti), insieme ai bambini più piccoli, ai membri più attempati del gruppo e, in generale, a tutti coloro che, per una qualsiasi ragione, non erano pienamente autonomi, e si occupavano preferibilmente di quei lavori che non richiedevano un allontanamento dal villaggio, come la costruzione di utensili. Coloro invece che erano liberi di muoversi (in maggioranza maschi adulti), si occupavano specificamente di quelle attività che si potevano svolgere solo lontano dal villaggio, come la caccia, la sorveglianza dei confini del territorio e il lavoro agricolo.

Per tutti il villaggio era il punto di riferimento e tutti, quando calava la sera, vi facevano ritorno, a meno che ne fossero impediti per una qualche valida ragione, come una battuta di caccia particolarmente impegnativa o conflitti di confine. Se i cacciatori facevano ritorno al villaggio con un ricco bottino, sufficiente ad assicurare per diversi giorni cibo abbondante per tutti, essi potevano decidere di trattenersi nel villaggio, dando vita ad una fase di ozio e a scambi interpersonali così intensi e vari da non avere riscontro in nessun’altra epoca del passato. Fu in simili condizioni che l’uomo dovette imparare ad accendere il fuoco artificialmente e a dare un forte impulso alla propria vita sociale, ma anche ad affinare il proprio sentimento religioso, com'è attestato dal culto dei crani, che si andò diffondendo proprio in questo periodo.

Nel complesso, il passaggio dalla vita nomade a quella stanziale non ebbe solo conseguenze positive. "La vita stabile, lo stanzialismo com'è chiamata in archeologia, potrebbe sembrare un fatto semplice e logico, ma per i nomadi non fu una scelta così ovvia. Lo stanzialismo legava le comunità a un unico luogo, esposto a rischi, e ne aumentava la vulnerabilità di fronte ai predoni; attirava insetti parassiti nocivi e malattie, richiedeva un nuovo modo di pensare, nuove relazioni sociali e una nuova organizzazione sociale, in cui gli individui dovevano barattare le loro ambite libertà e uguaglianza con la gerarchia, l'autorità, i capi e altri problemi [...]. Lo stanzialismo dovette inoltre risolvere la necessità sociale più pressante: la difesa da altri gruppi umani" (Wade 2007: 158-9). Questi due punti (l’organizzazione piramidale della società e il rischio di attacchi predatori) possono essere spiegati in modo complementare. In effetti, l’organizzazione piramidale serviva per amministrare il surplus in ordine alla sua produzione, alla sua conservazione e alla sua redistribuzione; ma il surplus poteva essere ambito da terzi, da qui il rischio di azioni di pirateria. Tanto l’amministrazione del surplus quanto il rischio di azioni di pirateria erano in stretta relazione con la limitatezza delle risorse di cui gli umani avevano necessità. Non dobbiamo dimenticare, infatti, che “Il primo problema della condizione umana è dato dalla scarsità” (Infantino 2013: 181).

Il problema della scarsità poteva essere affrontato in due modi: o cooperando o confliggendo. Cooperazione e conflitto furono le due risposte messe in atto dall’uomo alla condizione di scarsità. La prima era resa necessaria dal fatto che l’individuo da solo non era in grado di garantirsi un adeguato accesso alle risorse (da qui la necessità di organizzarsi in società «politica»), ma non sarebbe stata possibile se l’uomo non avesse avuto la predisposizione alla cooperazione spontanea. La seconda risposta, ovvero il conflitto, era legata alla constatazione che poteva essere più facile sottrarre le risorse ad altri piuttosto che andarsele a cercare da se stessi (da qui l’affermazione della pirateria).

Diecimila anni fa nessuno avrebbe potuto immaginare che "un giorno il mondo sarebbe stato diviso in aristocratici e plebei, padroni e schiavi, miliardari e senza tetto" (Harris 2004: 260). Inizialmente, infatti, le comunità di tipo tribale non concepirono l'idea di un capo dotato di un potere forte. Il capo villaggio era un semplice headman, cioè una persona priva di potere coercitivo su altri uomini. Solo eccezionalmente una tribù deliberava di porsi sotto un capo supremo e vivere di predazione o di sfruttamento dei vicini villaggi agricoli. Ma sorgerà un nuovo problema: anche i predatori potevano essere predati. Da qui la spinta ad organizzarsi sempre meglio e a sviluppare tecnologie militari sempre più efficienti, al fine di prevalere in forza rispetto a tutti gli altri, predare e non essere predati. Alla fine, la tecnologia, sia nel settore degli armamenti che nei mezzi di trasporto, si affermerà come “il fattore più importante nelle grandi dinamiche storiche” (Diamond 1998: 189). In generale, le popolazioni più progredite sul piano tecnologico partiranno favorite nell’evenienza di uno scontro armato con altre popolazioni e alcune di esse potranno estendere il proprio dominio su aree geografiche molto estese, dando vita ad illustri civiltà. Sappiamo però dalla storia che nessun popolo riuscirà a mantenere indefinitamente il ruolo di superpredatore.

Riepilogando. Con la scoperta dell’agricoltura l’uomo divenne per la prima volta produttore del cibo che consumava, ma dovette abbandonare il nomadismo per la vita stanziale. Le regioni coltivate pullulavano di villaggi, dove risiedeva l’headman o lo sciamano (le due figure potevano essere incarnate dalla stessa persona), cui era demandato il compito di provvedere all’amministrazione del surplus. L’uomo mesolitico ignorava il potere politico, la proprietà privata e il diritto e continuava a vivere per la semplice sussistenza all’interno del proprio clan. La società tribale non costituì un obiettivo intenzionale dell’uomo, ma rappresentò un traguardo in larga misura spontaneo conseguente alla combinazione della naturale socievolezza della specie umana, dell’incremento demografico, dell’elemento religioso e della scoperta dell’agricoltura. Al tempo stesso, essa fu anche il punto d’inizio in direzione di società indefinitamente più ampie e organizzate, queste sì frutto della volontà umana.


Il Dominio

Quello che va da 8 a 5,5 mila anni fa, il cosiddetto Neolitico, costituì certamente uno dei momenti topici per il Sapiens, un vero e proprio periodo rivoluzionario, che darà origine allo Stato e spalancherà le porte alla «storia». Fu caratterizzato dalla diffusione dell'agricoltura e dell'allevamento e dalla conseguente disponibilità di un surplus, che rese possibile un drastico incremento demografico e un cambiamento rivoluzionario pressoché in tutti i settori della vita sociale. La disponibilità di surplus costituiva un vantaggio ed un problema ad un tempo: il vantaggio era quello di poter meglio affrontare i periodi di crisi; il problema era che esso rappresentava anche un oggetto di tentazione e di desiderio per molti. Tutto ciò finì per suscitare nuove esigenze e creare nuovi problemi, prima del tutto sconosciuti. In particolare, mentre ai tempi dei cacciatori-raccoglitori, i gruppi umani non si sentivano stabilmente legati ad un territorio, ma potevano all’occorrenza mettersi in viaggio alla ricerca di nuove aree da sfruttare, nel Neolitico chi coltivava la terra si sentiva saldamente legato ad essa e si disponeva a difenderla come se si trattasse della propria vita. Fu la necessità di proteggere il surplus che portò a tutta una serie di acquisizioni tecnologiche, come la costruzione di strumenti sempre più perfezionati per la lavorazione della terra e dei prodotti agricoli, per la macellazione degli animali e la conservazione dei cibi, di armi, di abitazioni, magazzini, templi, strade, fortificazioni, mezzi per il trasporto di merci e persone, ma anche alla creazione di apparati amministrativi adeguati alle nuove necessità.

La disponibilità di un surplus indusse alcuni clan a specializzarsi nell'uso della forza, di cui si servivano per vivere di rapina. Arrivavano in massa nelle campagne coltivate e si impadronivano di ogni bene, e quando non c’era più nulla da mangiare, partivano per un’altra razzia. Col passare del tempo questa prassi si affermò come un modo legittimo, e anche meritorio, di procurarsi da vivere. I razziatori, infatti, furono tendenzialmente considerati non come semplici ladri o predoni, ma come uomini coraggiosi, che potevano agire alla luce del sole e le cui imprese venivano decantate dagli stessi protagonisti come atti eroici e salvifici, qualcosa di cui andare fieri. In effetti, i beni razziati venivano distribuiti equamente tra le famiglie e costituivano il perno intorno al quale girava l'economia della comunità. “In questa logica si può capire perché la razzia non sia considerata dai nomadi un atto efferato, violento, come si può pensarla dall’esterno. Essa rispetta certe regole […], mira esclusivamente alla predazione del bestiame e non è mai spietata, nel senso che lascia sempre il minimo indispensabile al gruppo razziato” (Turri 2003: 195-6). Fu così che, nel corso del Neolitico, l’azione violenta, in qualunque forma perpetrata (furto, rapina, razzia, guerra), diventò una “regolare fonte di guadagno” (Engels 1976: 136). E così sarà per molto tempo. Nell’antica Grecia, per esempio, la pirateria sarà ancora ritenuta una forma lecita, e perfino nobile, di acquisizione di risorse.

Nel corso delle razzie, un capobanda poteva rimetterci la vita, certo, ma poteva anche acquistare ricchezza e potere e conservarli per un tempo indefinito. Un capobanda che fosse riuscito a guidare i propri uomini verso ripetuti successi poteva assurgere a eccellente punto di riferimento per un certo tipo di persone, per lo più provenienti dalle classi più deboli, sbandati, fuoriusciti, gente che aveva poco da perdere, molte delle quali si mettevano al suo seguito e incrementavano la sua potenza, a tal punto da consentirgli di rivaleggiare con i signori dei dominî, gli headman, i quali, a loro volta, rispondevano aumentando le opere di fortificazione e il numero dei soldati e addossando i relativi costi sui contadini giustificandosi con la necessità di proteggerli dai briganti, anche se poi questa protezione risultava del tutto insufficiente e i contadini si vedevano spesso costretti a venire a patti coi briganti e a pagare un tributo anche a loro. Alla fine, per i contadini l’unica prospettiva era quella di lavorare e mantenere sia la classe dominante del dominio, sia i predoni: “se non lo facessero, sarebbero attaccati e massacrati dai signori di un’altra zona” (Robinson 1977: 55). Ma dovendo pagare un doppio tributo, all’headman e ai banditi, i contadini si impoverivano a tal punto da rischiare di morire di inedia.

Nel Neolitico le famiglie contadine rappresentavano la fonte di sostentamento delle popolazioni ma, al tempo stesso, ne costituivano l'anello debole. Non erano in grado di difendersi da un'eventuale incursione di una sia pur piccola banda organizzata di ladri e predoni e perciò la loro domanda di sicurezza era altissima. Fu in risposta a questa domanda che l’headman chiese e ottenne sempre più poteri finché si trasformò in Big Man, ovvero in un capo vero e proprio con la facoltà di sottoporre tutte le famiglie a tributo, col quale finanziare le opere di fortificazione e la milizia. I contadini che volevano essere protetti dovevano versare una parte del loro surplus nei magazzini controllati dal Big Man; gli altri dovevano arrangiarsi da soli, ma questo compito risulterà col tempo sempre più difficile da assolvere, perché i contadini indipendenti dovevano guardarsi non solo dalle bande di predoni, che si facevano sempre più numerose e agguerrite, ma anche dalle ritorsioni dello stesso Big Man, che mal sopportava l'esistenza di contadini che non intendevano piegarsi al suo potere. Alla fine tutti i contadini dovettero cedere e il Big Man si impegnò a provvedere alla difesa dell'intero territorio. Fu su queste premesse che si giunse alla costituzione di quella che possiamo indicare come la formazione politica più rappresentativa del Neolitico: il Dominio, o «potentato» o chefferie o chiefdom (in questo libro questi termini verranno usati come sinonimi) di cui ora dovremo occuparci.

Carandini distingue due tipi principali di dominio, uno più semplice e uno più complesso. Il dominio semplice conserva il carattere egalitario e l’assenza di stratificazione sociale propri della comunità tribale. Il capo non ha la facoltà di riscuotere tributi e non dispone di un rilevante surplus da amministrare. Nel dominio complesso si potrà notare un villaggio centrale, dove risiede il capo supremo, che svolge funzioni eminentemente sacerdotali, ma non detiene il monopolio della forza; i villaggi periferici sono retti da capi di rango inferiore, ma senza rapporto di subordinazione; la coesione sociale non è più assicurata solo da rapporti di parentela, ma anche da legami culturali e il ruolo militare del capo è ancora marginale rispetto alle funzioni religiose ed economico-amministrative (Carandini 1997: 603-4). Qui, come si sarà già compreso, ci stiamo riferendo al dominio complesso, le cui prime forme si costituirono, con ogni probabilità, nella Mezzaluna Fertile. È da qui che dovremo riprendere il nostro racconto.

Un dominio poteva ospitare, in uno spazio relativamente ristretto, uno o due migliaia di membri non necessariamente imparentati, che si dividevano il lavoro e riconoscevano l’autorità del Big Man. Inizialmente il surplus era di modeste dimensione e non giustificava la creazione di potenti bande armate da parte di clan esterni, pertanto le azioni di razzia dovevano essere poco frequenti. Inoltre, benché la popolazione mondiale fosse in crescita (da 30 milioni 8 mila anni fa a 100 milioni 5 mila anni fa), in questo periodo nessuna regione era così densamente abitata da non disporre di un qualche territorio libero o di qualche via di fuga, e ciò rendeva poco probabili azioni di guerra. Perciò dovette essere sufficiente attribuire i poteri politici agli sciamani in carica, trasformandoli in sacerdoti-re, ovvero in autorità costituite. Gli sciamani furono dunque i primi Big Man, i primi sacerdoti-re, essendo già legittimati al comando dal loro stesso ruolo di interpreti privilegiati del dio tutelare.

Sul finire del Neolitico però questa situazione iniziò a cambiare nelle regioni di Sumer e nella valle del Nilo, dove la pratica di un’agricoltura irrigua ad alta redditività portò ad una concentrazione demografica fuori dal comune e finì per determinare un aumento dell’indice di bellicosità. Fu allora che si avvertì l'esigenza di disporre di un condottiero dotato di specifiche qualità. Di norma lo si sceglieva fra tutti i capiclan della tribù. Il fatto è che, generalmente, i capiclan che si ritenevano dotati delle qualità necessarie per ricoprire con successo quel ruolo erano più di uno e nessuno presumibilmente accettava di buon grado di farsi da parte, il che spesso poteva ingenerare uno stato di divisione interna, che diventava assolutamente intollerabile quando il nemico era alle porte. Questo problema poté essere superato grazie alla religione, ovvero chiamando in causa lo sciamano e invitandolo a scrutare nella mente del dio tribale e leggervi il nome del prescelto. Si giungeva così alla nomina di un condottiero legittimato dal volere del dio, la cui autorità era posta al di fuori di ogni discussione e al quale era permesso di ostentare i simboli del suo ruolo.

Il Dominio nacque dunque in risposta alla necessità di amministrare il surplus alimentare e soprattutto alla necessità di difendere le campagne dai predoni, ma non era ancora uno Stato perché non disponeva di un apparato amministrativo, né di un esercito, né di altre istituzioni tipiche dello Stato. Nel Dominio la scrittura non era ancora conosciuta e la proprietà privata della terra non era ancora un diritto di legge legato alla persona, semplicemente perché l’idea di diritto giuridico ancora non si era affermata e la «legge» ancora non esisteva. In pratica, poiché il capo villaggio non era in grado di garantire la difesa delle terre, questo compito fu demandato ai singoli clan e alle singole famiglie, in accordo col principio che, se non voleva essere depredata, ogni famiglia doveva essere tanto forte da difendere la terra che coltivava. Insomma, la terra apparteneva a quanti la lavoravano ed erano capaci di difenderla e chi non era in grado di fare ciò rischiava di perderla. Si apriva così quello stato di guerra permanente fra famiglie e clan, che sarà magistralmente descritto da Hobbes.

In questo periodo si potevano riconoscere tre principali attori politici. I primi due li abbiamo già menzionati e sono i Domini e i clan guerrieri. Il terzo attore era rappresentato dalle popolazioni nomadi dedite alla pastorizia. I Domini erano situati al centro di aree pianeggianti e fertili dove lavoravano i contadini e rappresentavano il potere economico e produttivo; i clan guerrieri detenevano il potere proprio della forza libera e imprevedibile, che poteva colpire senza essere colpita, ma erano incapaci di organizzarsi in modo stabile e, quindi, di costituire un vero centro di potere politico; i nomadi si muovevano nelle aree più aride, montagnose e semidesertiche e rappresentavano una forza variabile e imprevedibile: di solito costituivano un elemento debole ma, se si univano sotto la guida di un capo potevano effettuare irresistibili incursioni, per poi dileguarsi col bottino nei loro territori, dove era pressoché impossibile scovarli, ma potevano anche farsi protagonisti di imprese ben più grandi e memorabili. Tra questi protagonisti si stabilirono rapporti che, col passare del tempo e a mano a mano che la densità demografica aumentava, tesero a farsi sempre meno pacifici e sempre più violenti.

Col passare del tempo, i clan guerrieri impareranno ad organizzarsi in modo sempre più funzionale alla loro attività di razziatori. Dunque, si disporranno gerarchicamente agli ordini di un capo dotato di poteri assoluti, coltiveranno la disciplina e le virtù militari, costituiranno gruppi di piccole dimensioni e disdegneranno le attività agricole onde preservarsi la massima libertà e rapidità di movimento, per potere sferrare i loro attacchi predatori improvvisi e poi sparire nel nulla. Da parte loro i contadini, non potendo allontanarsi dalla terra che coltivavano e non potendo nemmeno difendersi da soli, si mostreranno propensi a riporre il loro destino nella mani Big Man, cui riconosceranno sempre maggiori poteri finché, intorno a 5500 anni fa, sorgeranno i primi Stati, che segneranno la fine del cosiddetto «stato di natura» e su cui avremo modo di soffermarci nel prossimo capitolo.

Per «stato di natura» intendiamo il periodo in cui il Sapiens visse senza leggi o senza figure in grado di farle rispettare, periodo che era iniziato intorno a 100 mila anni fa, quando il Sapiens si era appena affermato come specie e viveva in società di banda e di clan, e si era protratto fino all'età del Dominio, epoca in cui comparvero i primi capi con potere limitato, ai quali non era consentito di imporre tributi o arruolare alle armi i membri di clan che non fossero d'accordo, se non in situazioni di grave pericolo e solo dopo aver consultato il Consiglio dei capiclan. In condizioni ordinarie invece i singoli clan potevano godere di ampie libertà. “L’uomo nello stato di natura non conosce sovrani; ogni individuo è uguale all’altro, e gode della più perfetta indipendenza; in questo stato l’unica subordinazione è quella dei figli al padre” (Diderot 1967: 726).

Generalmente si tende a credere che nello stato di natura gli uomini conducessero un'esistenza senza leggi e selvaggia, ma in realtà nessuno sa come vivessero effettivamente e ciò spiega le divergenti opinioni degli studiosi. Per Hobbes lo stato di natura fu una condizione di guerra di tutti contro tutti. Per Locke una condizione difficile, ma non disperata, dove i singoli hanno l’opportunità di scegliere, fra diverse alternative, quella migliore per sé e le proprie famiglie. Rousseau invece evoca il modello biblico di caduta da uno stato di perfezione iniziale e immagina lo stato di natura come una condizione idilliaca e il progresso come la perdita di tale condizione. Ora, da quanto abbiamo detto sopra, possiamo affermare che la verità doveva essere più vicina alla tesi di Hobbes che a quella di Locke e per nulla corrispondente a quella di Rousseau, e anche se, conviene ribadirlo, non abbiamo non abbiamo certezze assolute, possiamo presumere che il Dominio nacque in risposta ad uno stato di guerra di tutti contro tutti.

E cosa fecero i capi dei Domini? In risposta alla crescente domanda di sicurezza che proveniva delle famiglie, essi potenziarono l’apparato militare con intenti difensivi. Dobbiamo ricordare che il capo del Dominio altri non era che un capoclan o un capotribù guerriero con funzioni militari di difesa riconosciute da parte di altri clan e tribù sulla base di un accordo mutuamente vantaggioso: lui, il capo, avrebbe protetto i clan contadini dalle incursioni dei predoni in cambio di un tributo. Nonostante queste diverse funzioni, i ruoli dei vari capiclan rimanevano paritari, perché il capoclan guerriero non aveva il potere di costringere gli altri capiclan a rispettare i suoi comandi contro la propria volontà: lui era semplicemente «pagato» per svolgere la sua funzione difensiva, ma non aveva alcun potere sugli altri capiclan. Il vero organo sovrano del Dominio era costituito dal Consiglio dei capiclan. Ogni clan occupava un certo territorio e ogni famiglia lavorava il suo pezzo di terra, la cui proprietà era collettiva. Si produceva per la sussistenza e il modesto surplus serviva a malapena a tamponare qualche breve situazione di crisi. Ai tempi dei domini non si conoscevano ancora i fenomeni della ricchezza e della povertà. In conclusione, possiamo immaginare il Dominio come una comunità pre-statale costituitasi in modo consensuale e spontaneo con funzioni difensive.

L'unione di più tribù sotto un unico capo diede i suoi frutti nel contrastare le incursioni dei predoni. In effetti, gli eserciti formati in gran parte da contadini "riuscivano a sconfiggere gli aggressori in virtù della loro superiorità numerica. Grazie alla maggiore forza lavoro di cui disponevano rispetto alle comunità nomadi, alle fortificazioni e forse anche ai cani da guardia [...], erano in grado di tenere testa ai predoni che venivano a razziare il loro cibo e le loro donne" (Wade 2007: 159). Ma la situazione mutò profondamente nel momento in cui alcuni capiclan capirono che la forza delle armi poteva essere proficuamente impiegata anche per conquistare altri territori. Ovviamente un capoclan guerriero da solo difficilmente avrebbe potuto conquistare un grande territorio e, al tempo stesso, conservare un differenziale di forza tale da costringere all’obbedienza tutti gli altri clan ivi residenti. Da qui la prassi del condottiero in procinto di intraprendere un'azione di conquista di chiedere l’appoggio di altri capiclan in cambio della promessa che avrebbe poi spartito le terre conquistate: «A ciascun capoclan che mi sosterrà, in caso di vittoria darò la proprietà di una parte delle terre conquistate e ne farò il signore assoluto, con l’unico obbligo di rimanere mio fedele alleato».

Il condottiero vittorioso chiedeva il riconoscimento della propria legittimità ad esercitare il potere sovrano non solo ai capiclan guerrieri che lo avevano appoggiato, ma anche ai sacerdoti, i quali dovevano garantire che quel condottiero aveva conseguito la vittoria grazie ad una precisa volontà divina e grazie alla stessa volontà era legittimato a governare. “Sebbene il capo militare e politico abbia bisogno del sostegno del proprio seguito, quel che più esattamente lo legittima è una credenza posta al di là delle prove e delle confutazioni, la credenza che il potere sia un prodotto della volontà o del consenso degli dei” (Infantino 2013: 51). Da qui l’importanza della religione come massimo strumento di legittimazione del potere politico e di affermazione dello Stato. Una volta legittimati, i condottieri vittoriosi potevano comportarsi da veri sovrani. “I capi dei domini si circonda[va]no di simboli (emblemi e insegne di varia natura: scettri, troni, tamburi, armi, abiti da cerimonia) che esprim[eva]no la sacralità del potere, sacralità che trova[va] fondamento nella rivendicazione dell’origine soprannaturale del potere e nella sua funzione mediatrice fra i sudditi e gli spiriti, della cui benevolenza i capi si fa[ceva]no garanti” (Scarduelli 1993: 733). Grazie alla sacralizzazione del potere, lo status superiore del capo si poteva estendere anche ai suoi parenti e poteva anche essere trasmesso ai figli. Nel dominio “l’esercizio del potere tende[va] a rivestire un carattere molto più formale che in una tribù e l’autorità di un capo tende[va] a non fondarsi più sul consenso, mentre le funzioni politiche tend[eva]no a trasformarsi in cariche più o meno stabili a carattere ereditario” (Fabietti 2004: 334). Sarà da queste premesse che prenderanno origine gli Stati.

Ricapitolando. Le scienze psicosociali usano espressioni del tipo «affermazione del sé» o «volontà di potenza» per dire che ogni individuo, senza eccezione alcuna, ha dei bisogni da soddisfare e che tutti i nostri atti “sono governati da scopi” (Russell 1976: 33). Ebbene, tutto ciò che si è affermato e tutto ciò che l'uomo ha prodotto nel corso dei millenni dev'essere visto alla luce dell'incessante ricerca degli individui di soddisfare sempre meglio i propri bisogni. Il fatto è che, col passare del tempo, sono diminuiti i bisogni che potevano essere soddisfatti in modo diretto e immediato dalla stessa persona che ne era portatrice, come raccogliere cibo con le proprie mani o bere acqua da una sorgente, mentre sono aumentati quelli che potevano essere soddisfatti solo a livello sociale, come abbattere un animale di grossa taglia o arginare le acque di un fiume o trovare un partner o creare una famiglia o praticare riti magico-religiosi per vincere le forze del male o, più genericamente, cercare la felicità. All'interno della famiglia l’individuo era sovrano ma costantemente insicuro per la propria vita, da qui la tendenza a costituire gruppi sempre estesi (banda, clan e tribù), che si rivelarono capaci di offrire maggiori garanzie ai suoi bisogni. Alla fine si giunse allo Stato. E si trattò di un affare in termini di sopravvivenza della persona e della specie.

Lo Stato però non si sarebbe affermato in assenza di spinte prosociali o di comportamenti che siamo soliti definire solidali e altruisti, ma che in realtà furono un formidabile strumento di sopravvivenza. "Se gli animali che sostengono i costi del «curarsi degli altri» non fossero compensati con dei benefici, col tempo il loro numero diminuirebbe, mentre crescerebbe quello degli animali che si curano solo di se stessi. Alla fine, chi tiene la contabilità dei costi e dei benefici è il successo riproduttivo; ovvero, la diffusione dei geni nella popolazione attraverso le generazioni successive" (Churchland 2012: 26). Non si trattò dunque di un altruismo in perdita, ma di un altruismo per convenienza. L'altruismo fu un vero affare, perché consentì la costituzione di società estese, da cui i singoli individui traevano sostanziali vantaggi.


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