Il principio Federale3
Da Ortosociale.
CAPITOLO IV
TRANSAZIONE FRA I PRINCIPI: ORIGINE DELLE CONTRADDIZIONI DELLA POLITICA.
Poiché i due principi sui quali riposa ogni ordine sociale,
l'Autorità e la Libertà da un lato sono contrari l'uno all'altro e
sempre in lotta, e dall'altro non possono escludersi né
annullarsi, è inevitabile una transazione fra di loro. Qualunque
sia il sistema preferito, monarchico, democratico, comunista o
anarchico, l'istituzione non sopravviverà solo per il tempo in cui
avrà saputo appoggiarsi in misura più o meno considerevole
sulle caratteristiche del suo antagonista. Per esempio si
sbaglierebbe di molto se s'immaginasse che il regime di
autorità, col suo carattere paternalistico, le sue usanze familiari,
la sua iniziativa assoluta, possa far fronte con la sua sola forza
ai suoi bisogni. Per poco che lo Stato s'ingrandisca, questa
venerabile paternità degenererà rapidamente in impotenza,
confusione irragionevolezza e tirannia. Il principe è incapace di
provvedere a tutto; deve affidarsi ad intermediari che lo
ingannano, lo derubano, lo discreditano, lo svalutano presso
l'opinione pubblica, lo soppiantano ed infine lo detronizzano.
Questo disordine, inerente al potere assoluto, con la corruzione
che ne consegue e le catastrofi che lo minacciano
incessantemente, sono la peste della società e degli Stati.
Pertanto si può stabilire come regola la considerazione che il
governo monarchico è tanto più benevolo, morale, giusto e
sopportabile e pertanto durevole (tralascio in questo momento
le relazioni esterne), quanto più le sue dimensioni sono
modeste e si avvicinano maggiormente a quelle di una famiglia;
e viceversa, lo stesso governo sarà tanto più insufficiente,
oppressivo, odioso ai suoi sudditi e conseguentemente
instabile, quanto più lo Stato sarà diventato vasto. La storia ha
conservato il ricordo ed i nostri tempi ci forniscono gli esempi di
queste spaventose monarchie, mostri informi, veri mastodonti
politici, che una civiltà migliore, deve progressivamente far
scomparire. In tutti questi Stati l'assolutismo è in ragione diretta
della massa dei sudditi e si regge in virtù del proprio prestigio;
in un piccolo Stato, al contrario, la tirannia non si può sostenere
che per mezzo delle truppe mercenarie; altrimenti, vista da
vicino, si dissolve.
Per ovviare a questo vizio della loro natura, i governi
monarchici sono stati costretti a concedere, in misura più o
meno ampia, le forme della libertà, in particolare la separazione
dei poteri o la divisione della sovranità.
La ragione di questa modifica è facile da capire. Se un solo
uomo è appena sufficiente a coltivare con difficoltà un fondo di
cento ettari, condurre una manifattura che occupa alcune
centinaia d'operai, provvedere all'amministrazione di un
comune di cinque- seimila abitanti, come potrebbe sopportare il
peso di un impero di quaranta milioni di uomini? Ecco dunque
che la monarchia ha dovuto inchinarsi a questo duplice
principio, improntato ai concetti dell'economia politica: 1° la
maggior quantità di lavoro è svolto e il maggior valore è
prodotto quando il lavoratore è libero e può agire per suo conto
come imprenditore o proprietario; 2° la qualità del prodotto o
servizio prestato è tanto migliore quanto più il produttore
conosce il suo mestiere e vi si consacra esclusivamente. C'è
ancora una ragione che spiega questo prestito fatto dalla
monarchia alla democrazia, ed è che la ricchezza sociale
aumenta proporzionalmente alla divisione delle attività ed
all'organizzazione delle industrie, e questo significa, in politica,
che il governo sarà migliore ed offrirà maggiore sicurezza per il
principe, se le funzioni saranno meglio distinte ed equilibrate:
cosa, questa, impossibile nel regime assoluto. Ecco come i
principi sono stati indotti a repubblicanizzarsi, per così dire, da
se stessi, allo scopo di sfuggire ad una inevitabile rovina. Gli
ultimi anni ci hanno offerto esempi clamorosi, in Piemonte, in
Austria ed in Russia. Nella situazione deplorevole in cui lo zar
Nicola aveva lasciato il suo impero, non è di scarso rilievo, tra
le riforme adottate da suo figlio Alessandro (a), l'introduzione
della distinzione dei poteri nel governo russo.
Fatti analoghi, ma inversi, si osservano nel governo
democratico.
Ammettiamo pure di stabilire, con tutta la sagacità e la
precisione possibile, i diritti ed i doveri dei cittadini, le
competenze dei funzionari, prevedere le situazioni, le eccezioni,
le anomalie; la fecondità dell'imprevisto supera di molto la
prudenza dell'uomo di Stato e, più si legifera, più nascono i
contrasti. Tutto questo esige, da parte dei rappresentanti del
potere, una facoltà di iniziativa e di arbitraggio, che, per farsi
valere, hanno solo un modo, quello di costituirsi come autorità.
Togliete al principio democratico, togliete alla libertà questa
suprema sanzione, l'autorità, e lo Stato si disgregherà
all'istante. E' chiaro, tuttavia, che in tal caso non ci troviamo più
nel libero contratto, a meno che non si sostenga che i cittadini
sono d'accordo, in caso di controversia, di accettare la
decisione di uno di loro designato precedentemente, e cioè di
un giudice: cosa che significa esattamente rinunciare al
principio democratico e adottare quello monarchico.
La democrazia può moltiplicare tanto quanto vuole con i
funzionari, le garanzie legali ed i mezzi di controllo, può
subissare i suoi agenti di formalità, chiamare senza posa i
cittadini alle elezioni, al voto: per amore o per forza i suoi
funzionari sono uomini d'autorità, la parola è recepita; e se fra il
personale dei pubblici funzionari se ne trova uno o più di uno
incaricato della direzione generale degli affari, questo capo,
individuale o collettivo, del governo è ciò che anche Rousseau
ha chiamato principe, per un nulla sarà re.
Si possono fare osservazioni analoghe sul comunismo e
sull'anarchia. Non si sono mai avuti esempi di una comunità
perfetta; ed è poco probabile, qualunque sia il grado di civiltà, di
moralità, di saggezza che raggiunga il genere umano, che ogni
traccia di governo ed autorità scompaiano. Ma mentre la
comunità rimane il sogno della maggioranza dei socialisti,
l'anarchia è l'ideale della scuola liberista, che tende soprattutto
a sopprimere ogni tipo di governo ed a costituire la società sulle
sole basi della proprietà e del lavoro libero.
Non farò altri esempi. Ciò che ho detto è sufficiente a
dimostrare la validità della mia tesi, cioè che la monarchia e la
democrazia, il comunismo e l'anarchia, non potendo realizzarsi
nella purezza del loro ideale, sono costretti a completarsi l'uno
con l'altro per mezzo di concessioni reciproche.
Certamente, c'è di che umiliare l'intolleranza dei fanatici che
non possono sentir parlare di un'opinione contraria alla loro
senza provare una sorta di sdegno. Che apprendano dunque,
gli infelici, che proprio essi stessi sono necessariamente infedeli
ai loro principi, che la loro fede politica è tessuta di incoerenze
ed auguriamoci che anche il potere possa a sua volta giungere
a non attribuire a chi discute dei differenti sistemi di governo
alcuna intenzione faziosa. Convincendosi una buona volta che
questi termini di monarchia, democrazia, ecc., non esprimono
che delle concezioni teoriche, molto lontane dalle istituzioni che
sembrano tradurle, il monarchico alle parole del contratto
sociale, di sovranità del popolo, di suffragio universale, ecc.,
resterà calmo; il democratico, sentendo parlare di dinastia, di
potere assoluto, di diritto divino, conserverà sorridendo il suo
sangue freddo. Non c'è nessuna vera monarchia, non esiste
nessuna vera democrazia. La monarchia è la forma primitiva,
fisiologica e per così dire patronimica dello Stato; essa vive nel
cuore delle masse e si realizza sotto i nostri occhi con forza,
per mezzo della generale tendenza all'unità. La democrazia a
sua volta germoglia da ogni parte; affascina le anime generose
e conquista dovunque le élite della società. Ma è per la dignità
della nostra epoca che si deve rinunciare alla fine a queste
illusioni, che troppo spesso degenerano in menzogne. La
contraddizione è nella sostanza di tutti i programmi. I tribuni
popolari senza rendersene conto si affidano alla monarchia; i re
alla democrazia e all'anarchia. Dopo l'incoronazione di
Napoleone I°, la formula Repubblica francese, si lesse a lungo
su una delle due facce delle monete, che portavano dall'altra,
con l'effige di Napoleone, il titolo Imperatore dei Francesi. Nel
1830 la monarchia di Luigi Filippo fu designata da La Fayette
come la migliore delle repubbliche; ed egli non è forse stato
soprannominato il re dei proprietari? Allo stesso modo Garibaldi
ha reso a Vittorio Emanuele lo stesso servizio di La Fayette a
Luigi Filippo. Più tardi, è vero, La Fayette e Garibaldi, sono
apparsi pentiti; ma il loro giudizio iniziale deve essere accettato,
tanto più che, come tutte le ritrattazioni sarebbe illusoria.
Nessun democratico può dirsi del tutto immune da ogni
atteggiamento monarchico; nessun partigiano della monarchia
può ritenere di essere del tutto esente da ogni atteggiamento
repubblicano. Dato che la democrazia, non ha mai saputo
ripugnare l'idea dinastica più che l'idea unitaria, i fautori dei due
sistemi non hanno il diritto di scomunicarsi a vicenda, si impone
loro la tolleranza reciproca.
Ora, che cos'è la politica, se ad una società è impossibile
costituirsi esclusivamente sul principio che essa preferisce; se,
qualunque cosa faccia il legislatore, il governo qui ritenuto
monarchico, lì democratico, resta pur sempre un composto
ambiguo, in cui elementi opposti si mescolano in proporzioni
arbitrarie in balia del capriccio e degli interessi; in cui le
definizioni più precise conducono fatalmente alla confusione ed
alla promiscuità; in cui, per conseguenza, tutte le conversioni,
tutte le defezioni sono possibili ed il trasformismo passa come
virtù? Che campo aperto alla ciarlataneria, all'intrigo, al
tradimento! Quale Stato potrebbe sopravvivere in queste
condizioni tanto degradanti? Lo Stato non è ancora costituito,
che già porta nella contraddizione della sua idea il suo principio
di morte. Strana creatura, in cui la logica rimane impotente,
mentre l'incoerenza sembra essere la sola pratica razionale.
Note:
(a) E' dalla necessità di separare i poteri e di distribuire l'autorità che dopo
Carlomagno nacque, in parte, la feudalità. Da questo anche quella falsa aria
di federalismo che rivestì, per la sfortuna dei popoli e dell'Impero. La
Germania, costretta nello Statu quo di una costituzione assurda, risente
ancora di quelle lunghe lacerazioni. L'Impero si è frantumato e la nazionalità
è stata compromessa.
(b) Si potrebbe scrivere un'opera interessante sulle Contraddizioni politiche,
da abbinare alle Contraddizioni economiche. Ci ho pensato più di una volta;
ma, scoraggiato dalla cattiva accoglienza della critica, distratto da altri lavori,
ho rinunciato. L'impertinenza dei recensori si sarebbe ancora rallegrata
sull'antinomia, la tesi e l'antitesi; lo spirito francese, talvolta così penetrante e
così giusto, si sarebbe rivelato nella persona dei signori giornalisti, molto
sciocco, molto ridicolo e stolto; la fatuità gallica avrebbe contato un nuovo
trionfo, e tutto sarebbe stato detto. Avrei risparmiato ai miei compatrioti una
mistificazione, fornendo loro subito la soluzione che avrei dovuto comunque
dare, se avessi esposto davanti a loro tutte le difficoltà del problema.
CAPITOLO V
GOVERNI DI FATTO: DISSOLUZIONE SOCIALE
Poiché la monarchia e la democrazia, le sole di cui ormai mi
occupo, sono dunque due principi validi nella teoria, ma
irrealizzabili nel rigore dei loro termini, è stato inevitabile, come
ho appena detto, rassegnarsi nella pratica a transazioni di ogni
specie: da queste transazioni obbligate sono derivati tutti i
governi di fatto. Questi governi, costruzioni dell'empirismo,
variabili all'infinito, sono dunque essenzialmente e senza
eccezioni dei governi composti o misti.
Osserverò a questo proposito che i pubblicisti si sono
ingannati e che hanno introdotto nella politica un dato tanto
falso quanto pericoloso, allorché, non distinguendo la teoria
dalla pratica, la realtà dall'ideale, hanno posto sullo stesso
piano i governi di pura concezione, non realizzabili nella loro
interezza, come la monarchia e la democrazia pura ed i governi
di fatto o misti. La verità, lo ripeto, è che non esiste né possono
esistere governi della prima specie se non in teoria: ogni
governo di fatto è necessariamente misto, non importa che si
chiami monarchia o democrazia. Questa osservazione è
importante. Essa sola permette di ricondurre ad un errore di
dialettica le innumerevoli delusioni, corruzioni, rivoluzioni della
politica.
Tutte le varietà di governo di fatto, in altra parole, tutte le
transazioni costituzionali, attuate o proposte fin dai tempi più
antichi fino ai nostri giorni, si riducono a due specie principali,
che chiamerò con le loro denominazioni attuali: Impero e
Monarchia costituzionale. Ma questo richiede una spiegazione.
Poiché la guerra e l'ineguaglianza delle condizioni fin dalle
origini hanno caratterizzato la condizione dei popoli, la società
si è divisa naturalmente in un certo numero di classi: Guerrieri,
Nobili, Preti, Proprietari, Mercanti, Navigatori, Industriali,
Contadini. La dove esiste un monarca, si costituisce una casta
a sé, la prima di tutte: questa è la dinastia
La lotta delle classi fra di loro, l'antagonismo dei loro
interessi, il modo in cui questi interessi si coalizzano,
determinano il regime politico, conseguentemente la scelta di
governo, le sue innumerevoli varietà e le sue varianti ancora più
numerose. A poco a poco tutte queste classi si riducono a due:
una superiore, Aristocrazia, Borghesia o Patriziato; una
inferiore, Plebe o Proletariato entro le quali oscilla la monarchia,
organo del potere, espressione dell'autorità. Se l'Aristocrazia si
unisce alla monarchia, il governo che ne risulterà sarà una
monarchia temperata, oggi detta costituzionale; se è il popolo
che si coalizza con l'autorità, il governo sarà un impero, o
democrazia autocratica. La Teocrazia del medioevo consisteva
in un patto fra il sacerdote e l'imperatore; il Califfato era una
monarchia religiosa e militare. A Tiro, Sidone, Cartagine, la
monarchia si appoggiò sulla classe dei mercanti, fino al
momento in cui questa si impadronì del potere. Sembra che a
Roma la monarchia, nei primi tempi, abbia avuto rispetto per i
patrizi ed i plebei; successivamente queste due classi si
coalizzarono contro la corona, la monarchia fu abolita e lo Stato
prese il nome di Repubblica. Tuttavia il patriziato rimase
prevalente. Questa costituzione aristocratica, però, fu
turbolenta come la democrazia ateniese; il governo visse di
espedienti, ma, mentre la democrazia ateniese soccombette al
primo urto, con la guerra del Peloponneso, a Roma, invece, il
Senato romano fu costretto a tenere impegnato il popolo tanto
da giungere- come risultato- alla conquista del mondo. Data la
pace al mondo, seguì la guerra civile ad oltranza; e per porvi
fine, la plebe si dette un capo, distrusse il patriziato e la
Repubblica, e creò l'impero.
Ci si stupisce che il governo fondato sotto gli auspici della
borghesia o di un patriziato, d'accordo con una dinastia, sia in
genere più liberale di quello fondato da una moltitudine sotto la
guida di un dittatore o di un tribuno. La cosa, in effetti, deve
sembrare altrettanto stupefacente, in quanto in fondo la plebe è
più interessata e realmente più incline alla libertà che la
borghesia. Ma questa contraddizione, punto critico della
politica, si spiega con la situazione dei partiti, situazione che in
caso di vittoria popolare, fa ragionare ed agire la plebe come
autocrate ed in caso di prevalenza della borghesia, la fa
ragionare ed agire questa come repubblicana. Torniamo al
dualismo fondamentale: Autorità, Libertà e lo comprenderemo.
Dalla divergenza di questi due principi nascono in primo
luogo, sotto l'influenza delle passioni e degli interessi contrari,
due tendenze inverse, due correnti di opinione opposte: dato
che i sostenitori dell'autorità tendono a riservare alla libertà, sia
individuale sia corporativa o locale, lo spazio minore ed a
sfruttare sulla base di ciò, a loro profitto personale ed a
detrimento della moltitudine, il potere da essi appoggiato; i
sostenitori del regime liberale, al contrario, tendono a limitare
indefinitamente l'autorità ed a vincere l'aristocrazia per mezzo
della determinazione incessante delle funzioni pubbliche, degli
atti del potere e delle sue forme. Per effetto della sua posizione,
per l'umiltà della sua condizione, il popolo cerca nel governo
l'uguaglianza e la libertà; per la ragione contraria, il patriziato
proprietario, capitalista ed imprenditore, è più incline verso una
monarchia protettrice delle grandi fortune, capace di assicurare
l'ordine a suo profitto e che, per conseguenza, assegna la parte
maggiore all'autorità, la minore alla libertà..
Tutti i governi di fatto, qualunque siano le loro ragioni o
riserve, si riconducono così all'una o all'altra di queste due
formule: subordinazione dell'Autorità alla Libertà; oppure
subordinazione della Libertà all'Autorità.
Ma la stessa causa che spinge l'una contro l'altra la
borghesia e la plebe fa fare presto ad entrambe un voltafaccia.
La democrazia, per assicurare il suo trionfo, ignara d'altra parte
della logica del potere, incapace di esercitarlo, si dà un capo
assoluto, davanti al quale scompaia ogni privilegio di casta; la
borghesia, che teme il dispotismo come l'anarchia, preferisce
consolidare la sua posizione, favorendo lo stabilirsi di una
monarchia costituzionale. Così, in fin dei conti, è il partito che
ha più bisogno della libertà e dell'ordine legale che crea
l'assolutismo; mentre il partito dei privilegiati dà vita al governo
liberale, imponendogli per sanzione la restrizione dei diritti
politici.
Da ciò si vede che, astrazion fatta dalle considerazioni
economiche inerenti al dibattito, borghesia e democrazia,
imperialismo e costituzionalismo o qualsiasi nome si dia a
questi governi ispirati a principi di antagonismo, tutti si
equivalgono quindi a questioni come le seguenti: se il regime
del 1814 non valesse più che quello del 1804; se non sarebbe
vantaggioso per il paese, tornare dalla costituzione del 1852 a
quella del 1830; se il partito repubblicano si fonderà nel partito
orleanista o se si riavvicinerà all'impero; simili questioni - dico
io- dal punto di vista del diritto e dei principi, sono puerili. Un
governo che nasca dalle condizioni considerate non vale che
per i fatti che lo hanno prodotto e per gli uomini che lo
rappresentano, ed ogni disputa teorica a questo riguardo è
vana e non può portare che a delle aberrazioni. Le
contraddizioni della politica, i cambiamenti di rotta dei partiti,
l'inversione perpetua dei ruoli, sono così frequenti nella storia,
occupano un così gran posto negli eventi umani, che non posso
fare a meno di insistervi. Il dualismo dell'Autorità e della Libertà
ci fornisce la chiave di tutti questi enigmi; senza questa
precisazione originaria, la storia degli Stati sarebbe la
disperazione delle coscienze e lo scandalo della filosofia.
L'aristocrazia inglese ha fatto la Magna Carta; i puritani
hanno prodotto la dittatura di Cromwell. In Francia, è la
borghesia che pone le basi imperiture di tutte le nostre
costituzioni liberali. A Roma, il patriziato aveva organizzato la
repubblica; la plebe inventò i Cesari ed i pretoriani. Nel
sedicesimo secolo, la riforma è inizialmente aristocratica; la
massa resta cattolica o si sceglie dei messia come Giovanni di
Leida; esattamente l'inverso di quanto si era visto quattrocento
anni prima, quando i nobili bruciavano gli albigesi. Quante volte,
questa osservazione è di Ferrari, il medio evo ha visto i
Ghibellini farsi Guelfi ed i Guelfi cambiarsi in Ghibellini! Nel
1813, la Francia combatte per il dispotismo, la coalizione per la
libertà, proprio il contrario di ciò che era avvenuto nel 1792.
Oggi i legittimisti ed i clericali sostengono la federazione, i
democratici sono unitari. Non si finirebbe mai di citare simili
esempi; ciò non significa però che le idee, gli uomini e le cose
non debbano essere sempre classificati per le loro tendenze
naturali e per le loro origini, che i blu non siano sempre blu ed i
bianchi sempre bianchi.
Il popolo, per il fatto stesso della sua inferiorità e della sua
miseria, formerà sempre l'armata della libertà e del progresso; il
lavoro è repubblicano per natura ed il contrario sarebbe una
contraddizione. Ma, a causa della sua ignoranza e dei suoi
istinti primitivi, della violenza dei suoi bisogni, dell'impazienza
dei suoi desideri, il popolo è incline alle forme sommarie
d'autorità. Ciò che cerca non sono le garanzie legali, di cui non
ha alcuna idea e non concepisce la portata; non è affatto una
combinazione di meccanismi o un equilibrio di forze, di cui non
sa che fare, è un capo della cui parola possa fidarsi, le cui
intenzioni gli siano chiare e che si dedichi ai suoi interessi. A
questo capo conferisce autorità senza limiti, il potere massimo.
Il popolo, considerando giusto tutto ciò che giudica essergli
utile, considerato che è il popolo, se ne ride delle formalità, non
tiene in alcun conto le condizioni imposte ai depositari del
potere. Pronto al sospetto ed alla calunnia, ma incapace di una
discussione metodica, non crede in definitiva che alla volontà
umana, non spera che nell'uomo, non confida che nelle sue
creature: in princibus, in filiis hominum; il popolo non si aspetta
niente dai principi, che soli possono salvarlo; non ha la religione
delle idee.
E' così che la plebe romana, dopo settecento anni di regime
progressivamente liberale ed una serie di vittorie riportate da
esso sul patriziato, credette di togliere di mezzo tutte le difficoltà
annientando il partito dei tribuni, dette a Cesare la dittatura
perpetua, fece tacere il senato, abolire i comizi e, per uno staio
di grano, annona, fondò l'autocrazia imperiale. Ciò che c'è di
curioso è che questa democrazia era sinceramente convinta del
suo liberalismo, e si vantava di impersonare il diritto,
l'uguaglianza ed il progresso! I soldati di Cesare, idolatri del loro
imperatore, erano pieni di odio e di disprezzo per i re: se gli
assassini del tiranno non furono immolati sul posto, fu perché
Cesare era stato visto alla vigilia della sua uccisione cingersi il
capo calvo con l'insegna regale. Così i seguaci di Napoleone I°,
usciti dal club dei Giacobini, nemici dei nobili, dei preti e dei re,
trovarono del tutto normale fregiarsi con i titoli di barone, di
duca, di principe e fare la corte all'imperatore; non gli
perdonarono, però, di aver preso in moglie una principessa
Asburgica.
Lasciata a se stessa o condotta dai suoi tribuni, la moltitudine
non ha creato mai niente. Ha la testa girata indietro: presso di
lei non si forma alcuna tradizione, nessun spirito di gruppo,
nessuna idea che assuma la forza della legge. Della politica
non comprende che l'intrigo, del governo solo le elargizioni e la
forza, della giustizia solo la vendetta; della libertà non conosce
altro che la possibilità di erigersi degli idoli che essa demolisce
all'indomani. L'avvento della democrazia apre un'era di
regresso che condurrebbe la nazione e lo Stato alla morte, se
essi non si sottraessero alla fatalità che li minaccia con una
rivoluzione in senso inverso, che si tratta ora di valutare.
Quando la plebe che vive giorno per giorno, senza proprietà,
senza imprese, esclusa dai pubblici impieghi, è al riparo dai
rischi della tirannia, di cui non si dà pensiero, tanto la
borghesia, che ha possedimenti, traffici e produce, avida di
terre e di guadagni, è interessata a prevenire le catastrofi e ad
assicurarsi l'appoggio del potere. Il bisogno di ordine la
riconduce alle idee liberali: da ciò derivano le costituzioni che
essa impone ai suoi re. Nello stesso momento in cui essa
riveste il governo di apparati legali e l'assoggetta al voto di un
parlamento, limita i diritti politici ad una categoria di contribuenti
ed abolisce il suffragio universale; ma si guarda bene dal
toccare l'accentramento amministrativo, contrafforte della
feudalità industriale. Se la separazione dei poteri le è utile per
bilanciare l'influenza della corona ed impedire la politica
personale del principe, se d'altra parte il privilegio elettorale la
serve ugualmente bene contro le aspirazioni popolari, non le è
meno preziosa la centralizzazione; anzitutto perché ha bisogno
degli amministratori, che mettono la borghesia a parte del
potere e delle imposte, poi perché le agevola lo sfruttamento
pacifico delle masse. Sotto un regime di centralizzazione
amministrativa e di suffragio ristretto dove la borghesia, grazie
alla sua maggioranza, resta padrona del governo, tutta la vita
locale è soffocata ed ogni reazione facilmente repressa, sotto
un tale regime- io dico- la classe dei lavoratori, chiusa nelle sue
officine è naturalmente votata al salariato. La libertà esiste, ma
nella sfera della società borghese, cosmopolita come i suoi
capitali; quanto alla moltitudine, ha dato le sue dimissioni, non
solo politiche ma anche economiche.
Devo aggiungere che la soppressione o la conservazione di
una dinastia non cambierebbe niente al sistema? Una
repubblica unitaria ed una monarchia costituzionale sono una
sola ed unica cosa: non c'è che una parola diversa ed un
funzionario di meno.
Ma se l'assolutismo democratico è instabile, il
costituzionalismo borghese non lo è di meno. Il primo è
retrogrado senza freni, senza principi, dispregiatore del diritto,
ostile alla libertà, distruttivo di ogni sicurezza e fiducia. Il
sistema costituzionale, con le sue forme legali, il suo spirito
giuridico, il suo temperamento misurato, le sue solennità
parlamentari, si rivela chiaramente, in fin dei conti, come un
vasto sistema di sfruttamento e d'intrigo, dove la politica si
accompagna all'aggiotaggio, in cui l'imposta non è che l'elenco
civile di una casta ed il potere monopolizzato è l'ausiliario del
monopolio economico. Il popolo ha il vago sentimento di questa
immensa usurpazione: le garanzie costituzionali lo toccano
poco e lo si è visto, soprattutto nel 1815, preferire il suo
imperatore, malgrado le sue infedeltà, ai suoi re legittimi,
malgrado il loro liberalismo.
L'alternarsi d'insuccessi, ripetuti, della democrazia imperiale
e della costituzionalità borghese, hanno come risultato quello di
creare un terzo partito che, alzando la bandiera dello
scetticismo, non credendo in alcun principio, profondamente e
sistematicamente immorale, tende a regnare come qualcuno ha
detto con la bilancia, cioè per la rovina completa dell'autorità e
della libertà, in una parola per mezzo della corruzione. E' ciò
che è stato chiamato sistema dottrinario. Accolto inizialmente
dall'odio e dall'esecrazione dei vecchi partiti, questo sistema ha
fatto rapidamente fortuna, sostenuto dallo scoraggiamento
crescente e giustificato in qualche modo dallo spettacolo della
contraddizione universale. In poco tempo è diventato la fede
segreta del Potere, al quale il pudore e la decenza impediranno
sempre di fare professione pubblica di scetticismo; ma è anche
la fede confessata della borghesia e del popolo che, non più
frenati da alcuna considerazione, lasciano esplodere la loro
indifferenza e se ne vantano. Allora, smarrito negli animi il
senso dell'autorità e della libertà, considerate come vane parole
la giustizia e la ragione, la società si disgrega, la nazione
decade. Ciò che rimane è soltanto materia e forza bruta; una
rivoluzione diviene imminente, pena il suicidio morale. Cosa ne
verrà fuori? La storia è qui per rispondere; gli esempi si contano
a migliaia. Al sistema condannato succederà, grazie alla spinta
delle generazioni immemori, senza posa rinnovate, una
transazione che avrà lo stesso svolgimento, e che, logora a sua
volta e disonorata per la contraddizione delle sue idee, farà la
stessa fine. E questo continuerà finché la ragione umana non
abbia scoperto il modo di dominare i due opposti principi e non
avrà trovato l'equilibrio della vita sociale per mezzo della
regolamentazione dei suoi antagonismi.
Altri capitoli
- Il Principio Federale di P.J.Proudhon Parte 1
- Il Principio Federale di P.J.Proudhon Parte 2
- Il Principio Federale di P.J.Proudhon Parte 3
- Il Principio Federale di P.J.Proudhon Parte 4
- Il Principio Federale di P.J.Proudhon Parte 5
- Il Principio Federale di P.J.Proudhon Parte 6
- Il Principio Federale di P.J.Proudhon Parte 7