Sociologia54

Da Ortosociale.

Storie, religioni e capi sanguinari


di Matteo Bortolini, Dipartimento FISPPA Università di Padova, [matteo.bortolini@unipd.it]. Riflessioni sull’opus magnum di Robert Bellah [NdA:Una versione ridotta del primo paragrafo è stata pubblicata col titolo Back to his roots, “The immanent frame” 2012. Ringrazio Jonathan VanAntwerpen e The immanent frame per il permesso di pubblicare la traduzione italiana di quello scritto, René Capovin per avermi spinto a rileggere Gianfranco Miglio, e soprattutto Paolo Costa per la collaborazione e l’amicizia di cui mi fa dono da molti anni]. Tratto da "FENOMENOLOGIA E SOCIETÀ Periodico di filosofia a cura del Centro di Ricerche socioculturali n. 2/2013 anno XXXIV"



No, non è un bene il comando di molti;
uno sia il capo, uno il re.
Omero, citato da Étienne de La Boétie


Quando scriviamo di persone in carne e ossa siamo obbligati a ripeterci l’ammonimento di Pierre Bourdieu: non lasciatevi affascinare dal vostro soggetto! È il prezzo che paghiamo per sfuggire alla fallacia biografica [NdA: P. Bourdieu, Ragioni pratiche, trad. it., il Mulino, Bologna 1995, p. 71 e sgg. Uno dei fondamenti di questo saggio, come di altri miei lavori, è il rifiuto di una rigida distinzione tra «storia» e «sistematica» della sociologia, ovvero di una rigida distinzione tra analisi contestualista e lettura presentista degli oggetti culturali e simbolici. Nel prosieguo del saggio cerco di pendolare continuamente tra le due posizioni, come suggerito da Charles Camic nell’introduzione di Reclaiming the Sociological Classics: The State of the Scholarship, Wiley-Blackwell, Oxford 1997.], la tentazione di ricostruire le esistenze individuali come se fossero storie coerenti, finalizzate, prive di cesure e discontinuità. Bourdieu ha ragione. Le vite dei nostri soggetti sono, come le nostre, un’accozzaglia insensata di abitudini e novità, decisioni e distrazioni, strategie e sciocchezze, possibilità e rimpianti. Al tempo stesso però, come ci ricorda Robert N. Bellah, siamo animali narrativi, esseri che non possono non raccontare storie. E le narrazioni si organizzano per simboli – la loro verità «non nasce dalla conformità delle singole parole o proposizioni alla “realtà”, ma dalla coerenza della storia presa nel suo complesso. Come una poesia non può essere parafrasata senza perdere il suo significato», così ogni narrazione deve mantenere una sua unità di fondo – deve parlarci di un eroe che compie un’impresa, deve avere un inizio, uno sviluppo e un finale [NdA: R.N. Bellah, Religion in Human Evolution: From the Paleolithic to the Axial Age, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 2011, p. 33.] Per raccontare dell’uomo e delle sue religioni Bellah ha scritto un volume complesso e stratificato, in cui si intrecciano narrazioni e simboli diversi e, in apparenza, incompatibili – e d’altronde, come afferma Paolo Costa, «ogni storia, comprese le narrazioni evoluzionistiche, ha una matrice, in senso lato, “autobiografica”» [NdA: P. Costa, L’evoluzione di che cosa? Storia naturale, storia umana e religione secondo Robert Bellah, in questo numero]. Seguendo l’esempio di Bellah vorrei mescolare personale e globale, lunga e breve durata, teoria e mito per raccontare un paio di storie.

Biografia di un’opera

Religion in Human Evolution parte dal Big Bang e si ferma all’Epoca assiale, 2500 anni fa. È difficile, se non impossibile, avvicinarsi alle sue settecento, densissime pagine senza provare un misto di interesse e inquietudine. È un’opera che affronta un oggetto incandescente, che trascende i confini disciplinari a cui siamo abituati per portarci in uno spazio di cui non sappiamo quasi nulla. Un’opera che fonde i tempi storici per trarre dall’evoluzione una lezione di profonda umiltà [NdA: Ibidem, p. 597 e sgg]. Un’opera che nell’epoca dei microracconti assume una postura, la grande narrazione, che non ci attendiamo: Questo libro [...] è un tentativo di rivivere quei momenti che ci appartengono nelle profondità del nostro presente, di trarre acqua vivente dal pozzo del passato, di trovare amici nella storia che possano aiutarci a capire chi siamo [NdA: Ibidem, pp. xxii-xxiii]. Forse, direbbe Sigmund Freud, per rendere meno perturbante l’esperienza di Religion in Human Evolution dovremmo ricostruire la sua storia profonda, portando alla luce ciò che è nascosto nel suo inconscio. Ci provo. Chi conosce il lavoro di Robert Bellah sa che Religion in Human Evolution viene da lontano. Già nel 1963, nell’ambito di un seminario harvardiano condotto con Talcott Parsons e Shmuel N. Eisenstadt, Bellah aveva tratteggiato una teoria evolutiva della religione fondata sul classico principio per cui le «forme più complesse si sviluppano a partire da forme più semplici e [...] le proprietà e le possibilità delle forme più complesse differiscono da quelle delle forme più semplici» [NdA: La citazione viene da R.N. Bellah, Religious evolution, “American sociological review”, vol. 29 (1964), n° 3, ora in Id., Beyond Belief: Essays on Religion in a Post-traditional World, Harper and Row,New York 1970, p. 21. Vedi J.Z. Smith, A damned good read, “The immanent frame” 2011, (accesso 18 maggio 2013)]. In realtà, il primo abbozzo della teoria risaliva addirittura al periodo in cui Bellah aveva studiato a Montreal sotto la guida di Wilfred Cantwell Smith – parliamo del 1956, cioè 55 anni prima della pubblicazione di Religion in Human Evolution. L’evoluzione delle religioni costituiva inoltre il filo rosso dei corsi universitari proposti da Bellah agli undergraduate di Harvard e, dal 1967, di Berkeley. Anno dopo anno, e indipendentemente dalla direzione assunta dalla sua ricerca, il sociologo americano ha dedicato gran parte delle sue lezioni alla storia evolutiva dei simboli, pratiche e organizzazioni religiose in contesti sociali e culturali diversi. Nel corso del 1980 troviamo alcune straordinarie continuità: l’architrave teorica è già costruita su autori e temi fondamentali per la prima parte di Religion in Human Evolution: Alfred Schütz e le realtà multiple, Abraham Maslow e i tipi di cognizione, Jerome Bruner e le forme di coscienza – oltre, naturalmente, ai classici Max Weber ed Émile Durkheim. Qualche anno dopo, in un articolo intitolato How I Teach The Introductory Course, Bellah ragionava sul suo framework con queste parole:

Immagino di dover accettare il fatto di essere disperatamente hegeliano. Lo schema dell’evoluzione religiosa ha, ovviamente, un fondamento hegeliano, così come lo è, in molti sensi, l’intero progetto parsonsiano. L’idea di uno sviluppo e l’idea di un movimento da uno stadio all’altro che si realizza mediante il conflitto e il superamento di alcune antinomie stanno alla base del mio modo di pensare

[NdA: Vedi R.N. Bellah, How I teach the introductory course, in M. Juergensmeyer (a cura di), Teaching the Introductory Course in Religious Studies: A Sourcebook, Scholars Press, Atlanta 1991, p. 194]. Dal punto di vista degli esempi, benché non parlasse ancora di «epoca assiale», Bellah dedicava già parecchie lezioni ai casi della parte finale del suo libro – l’antico Israele e la Cina Shang, Platone e Confucio [NdA: Gli appunti del corso “Sociology 146. Sociology of religion. Winter 1980”, University of California, Berkeley, mi sono stati forniti da Sam Porter, che ringrazio]. È piuttosto evidente che l’evoluzione delle religioni non era, per Bellah, un impegno tra gli altri. Si trattava, al contrario, di una vera e propria vocazione – un compito che lui stesso si era assegnato all’inizio del suo percorso intellettuale. Studente prediletto di Parsons al Department of Social Relations di Harvard negli anni Cinquanta, Bellah era stato l’oggetto di grandi aspettative – il suo mentore lo considerava il migliore teorico tra i suoi studenti, superiore anche a Robert K. Merton [Sulle vicende personali e intellettuali di Bellah, e in generale sugli episodi a cui accenno nel testo, rimando a M. Bortolini, L’intellettuale in campo. Il caso di Robert N. Bellah, Armando, Roma 2013.]. Interiorizzando tali attese come uno degli elementi dell’immagine di sé come intellettuale destinato ai più alti traguardi, Bellah finì per auto-assegnarsi un programma di ricerca estremamente ambizioso. Il 24 gennaio 1961, presentando al presidente di Harvard Nathan Pusey la candidatura di Bellah a professore associato, Parsons descriveva il suo ex pupillo come «una particolare variante moderna dello studioso universale di un tempo», che aveva «sviluppato un progetto di studio che [l’avrebbe occupato] per tutta la vita», centrato sugli «studi storico-comparativi delle relazioni tra religione e società nel campo delle principali religioni mondiali». Al fine di realizzare tale programma intellettuale Bellah si era gettato a corpo morto nello studio della teoria sociologica, della storia e della teologia. Già nel 1961, dunque, il trentatreenne sociologo americano aveva deciso di dedicare la sua vita a un progetto che eccedeva, e di molto, gli studi sulla modernizzazione e le religioni orientali che lo avevano impegnato fino ad allora. Tale impegno personale spiega, almeno in parte, perché Bellah sia tornato al tema dell’evoluzione dopo trent’anni di quasi completo silenzio. Come è noto, il lungo periodo di «vacanza» dai temi evolutivi – pur limitato, come ho detto, alla scrittura – è dipeso dall’inaspettato successo del saggio pubblicato nel 1967, Civil Religion in America, che ha lanciato Bellah nel campo degli studi sulla religione e la politica americane. La pubblicazione di due celebri volumi sulla cultura e le istituzioni degli Stati Uniti – Habits of the Heart (1985) e The Good Society (1991) – ha rappresentato l’apice di questa fase della carriera intellettuale di Bellah e la premessa della sua consacrazione come intellettuale pubblico. Il pensionamento dall’University of California, avvenuto nel 1997, ha in qualche modo «liberato» Bellah dall’America e gli ha consentito di dedicarsi nuovamente al suo progetto originario fino alla pubblicazione, tredici densissimi anni dopo, di Religion in Human Evolution [NdA: Vedi su questo R.N. Bellah, Where did religion come from?, “The immanent frame” 2011, (accesso 18 maggio 2013). Tornerò più avanti sulla relazione tra Bellah, la religione civile americana e Religion in Human Evolution]. Le origini di Religion in Human Evolution ci aiutano a comprendere alcune delle scelte teoriche di Bellah. Come ho già detto, il libro inizia...dall’inizio – dal Big bang e dalle origini dell’universo. L’autore si appella a un più generale senso di connessione, secondo il quale noi,

in quanto esseri umani moderni che cerchiamo di comprendere questa pratica umana che chiamiamo religione, abbiamo bisogno di situarci nel contesto più ampio possibile, e dobbiamo dunque prendere le mosse dalla cosmologia scientifica

[NdA: R.N. Bellah, Religion in Human Evolution cit., p. 50]. Dal punto di vista della storia e della sociologia delle idee tale orientamento può essere letto come un omaggio alla venerabile tradizione che risale ad Auguste Comte, a Herbert Spencer e alla straordinaria varietà degli interessi dei «sociologi» dell’Ottocento [NdA: Già peraltro evocati in Religious Evolution cit. Sul tema vedi solo R.W. Connell, Why is classical theory classical?, “American Journal of Sociology”, vol. 102 (1997), n° 6, pp. 1511-57], tanto più che, in altra occasione, Bellah ha ribadito il suo «profondo desiderio di conoscere tutto: cos’è l’universo e cosa siamo, noi uomini, al suo interno» [NdA: H. Horn, Where does religion comes from? A conversation with Robert Bellah, “The atlantic”, 17 agosto 2011, (accesso 18 maggio 2013)]. Ma l’ispirazione più immediata è indubbiamente Talcott Parsons, il vecchio maestro, laureato in biologia e pronto a integrare nella teoria dell’azione qualunque tesi o generalizzazione scientifica che ampliasse la sua comprensione dell’uomo e della società. Negli anni Cinquanta, periodo in cui Bellah si stava formando a Harvard, gli interessi extrasociologici di Parsons travolgevano continuamente collaboratori e studenti, come testimonia l’episodio raccontato da Edward A. Tiryakian: In una delle sue discussioni [...] [Parsons] stava parlando dell’evoluzione delle specie. Alzò la testa, guardò i suoi interlocutori e disse: «Vi rendete conto dell’importanza evolutiva del canale che unisce la bocca e l’ano dei vermi?». Ora, cosa fai quando Parsons ti guarda? I presenti dissero semplicemente: «Wow!» [NdA: Comunicazione personale, Budapest, 28 giugno 2008]. Vent’anni dopo Parsons portò a compimento gli studi di una vita con un paradigma sintetico della «condizione umana» che andava dal «sistema telico» dei valori trascendenti alle basi chimiche e fisiche della vita passando per cultura e sistemi sociali, corpi e personalità [NdA: Vedi su questo M. Bortolini, R. Prandini, Destino della religione e cultura della modernità, in T.Parsons, Cristianesimo e modernità. Saggi di sociologia della religione, trad. it., Gentile editore, Salerno 2005, pp. 9-88, e la bibliografia ivi elencata]. Negli anni Settanta, però, Parsons e il funzionalismo erano ormai fuori moda e il suo tentativo di sintesi passò quasi del tutto inosservato – anche Bellah, che aveva acquisito una posizione autonoma all’interno del campo intellettuale, si guardò bene dal commentare. Parsons, tuttavia, stava ribadendo una tesi cruciale, un’idea che stava da sempre al centro della sua concezione della realtà: il mondo è un’infinita successione di strati, ognuno dei quali emerge dai livelli «più semplici» e possiede proprietà originali e inedite. Proprio perché gli strati di realtà sono differenti e irriducibili, nessuno di essi può godere di un primato esplicativo e va studiato in sé e nel rapporto con gli altri strati [NdA: Sull’emergentismo si veda il dibattito ricostruito in A.M. Maccarini, A morphogenetic-relational account of social emergence, in M.S. Archer, A.M. Maccarini (a cura di), Engaging with the World: Agency, Institutions, Historical Formations, Routledge, London 2013, pp. 22-49. Parsons non utilizzava un vocabolario emergentista; la logica di AGIL, tuttavia, incorpora implicitamente questo modo di pensare. Vedi, poco più diffusamente, M. Bortolini, «Parsonianism», general frameworks, evolution, in C. Hart (a cura di), A Collection of Essays in Honour of Talcott Parsons, Midrash, Poynton 2009, pp. 81-112.]. Più esplicitamente di altri lavori di Bellah, Religion in Human Evolution fa propria questa logica: le strutture biologiche, psicologiche, sociali e culturali si combinano creando nuove capacità (capabilities) da cui emergono ulteriori proprietà e processi – senza, appunto, che sia possibile individuare un principio causale di «ultima istanza». La religione è pensata come una particolare sfera sociale di simboli, pratiche e istituzioni che si fonda su capacità sviluppate altrove e che, al contempo, influisce su ulteriori ordini di realtà producendo «un complesso di capacità inedite, ciascuna delle quali comporta un nuovo livello di riflessività e, in modi complessi e indeterminati, nuove possibilità di autodeterminazione» [NdA: R.N. Bellah, Introduzione: la sfida «assiale» della contemporaneità, in questo volume]. Come mostrerò più avanti, in uno dei passaggi più interessanti del volume Bellah spiega l’origine della disuguaglianza e del potere mediante una analisi di quella particolare combinazione di azione simbolica, figurazioni sociali e fattori psicologici che ha reso possibile il focalizzarsi dell’attenzione collettiva sulla figura del capo politico, favorendo il passaggio dalle società tribali a quelle arcaiche. Mi pare che una rilettura di Religion in Human Evolution dal vantage point di una concezione emergentista e stratificata della realtà – mai esplicitata da Bellah nei termini utilizzati qui – renda immediatamente chiara tutta una serie di passaggi e decisioni teoriche. Non cogliendo il punto di fondo, alcuni critici hanno dedicato agli argomenti non sociologici – che occupano una quarantina di pagine su settecento – un’attenzione sproporzionata, con qualche caduta di stile. Un esempio per tutti è la recensione che Alan Wolfe, sociologo solitamente accorto, ha pubblicato sul New York times, in cui leggiamo: «Non avrei mai pensato di leggere un’opera di sociologia di religione che contenesse una discussione dei procarioti e degli eucarioti. E invece è accaduto» [NdA: A. Wolfe, The origins of religion, beginning with the Big Bang, “The New York times” 2011, (accesso 18 maggio 2013)]. In un intervento assai più centrato di quello di Wolfe, Jonathan Z. Smith [NdA: J.Z. Smith, A damn good read cit., p 4] ha invece sostenuto che, rispetto all’articolo del 1964, «il peso del meccanismo, dell’agire, del portatore ricade ora sugli aspetti biologici». In realtà, se è vero che il biologico è uno strato di realtà tra gli altri, «il genus Homo» non gode di alcun primato esplicativo. Anche la teoria dell’evoluzione della mente proposta dallo psicologo Merlin Donald è ripresa da Bellah non per introdurre surretiziamente i fattori psicologici nell’evoluzione sociale e religiosa (com’è ormai di uso comune negli account evoluzionistici), quanto piuttosto per contestualizzare nell’ambito di un più ampio processo che è insieme biologico, psicologico e sociale uno dei punti di svolta più rilevanti per lo sviluppo dell’umanità – il momento in cui l’invenzione della scrittura e l’esternalizzazione della memoria hanno spostato l’evoluzione al di fuori dell’organismo e del cervello. Pace Wolfe, l’introduzione di elementi naturali e psicologici permette di attribuire la giusta importanza a quelli sociologici e antropologici senza alcuna allusione riduzionistica. La concezione stratificata della realtà spiega anche perché è inutile cercare nel libro di Bellah meccanismi evolutivi di tipo strettamente sociologico. Come ha correttamente notato David Martin [NdA: D. Martin, What should we now do differently?, “The immanent frame” 2011, (accesso 18 maggio 2013)], in Religion in Human Evolution non troviamo Spencer – e nemmeno L.T. Hobhouse, Gerhard Lenski o W.G. Runciman. Bellah non è interessato nemmeno a tracciare la diffusione delle idee o delle norme sociali né a teorizzare i percorsi storici che portano da un tipo di società all’altro – anche in questo caso Martin coglie nel segno. In questo senso, Religion in Human Evolution potrebbe essere accostato a un’altra opera sociologica di eccezionale importanza, Die Gesellschaft der Gesellschaft di Niklas Luhmann, che presenta uno schema evoluzionistico neodarwiniano basato su un processo di variazione, selezione e stabilizzazione delle caratteristiche adattive. Pur considerandolo come una illustrazione generale del mutamento sociale, Luhmann si rifiuta di utilizzare il suo modello per spiegare i passaggi tra le quattro forme storiche di differenziazione (segmentaria, centro/periferia, stratificata e funzionale): la teoria sociologica deve limitarsi a prendere atto del fatto che l’evoluzione umana ha visto l’affermarsi di un ridotto numero di tipi di società e che le strutture di fondo dei sistemi sociali non emergono né cambiano a caso [NdA: Vedi la versione italiana (ridotta) del volume di Luhmann: R. De Giorgi, N. Luhmann, Teoria della società, Franco Angeli, Milano 1993, pp. 169-316]. Il silenzio di Luhmann e Bellah sul mutamento sociale in generale è comprensibile solo se non viene scambiato per un deficit di erudizione o di coraggio intellettuale: al contrario, esso discende da una lucida comprensione dei limiti intrinseci della teoria sociologica. In questo senso Religion in Human Evolution può essere letto come un tentativo di elevare l’opera di Talcott Parsons a un superiore livello di complessità ed efficacia esplicativa che prende sul serio, e cerca di superare una volta per tutte, la tendenza parsonsiana a estendere eccessivamente i confini della teoria.

Civitas persona una est... Excursus sulla nascita del disuguaglianza

Sospendiamo per un attimo la narrazione biografica per mettere Religion in Human Evolution alla prova su un tema antico e venerabile: la nascita della disuguaglianza politica, il consolidarsi del dominio a partire da una originaria condizione di libertà e autonomia individuale tanto inaudita da non sembrare, a noi moderni, nemmeno pensabile. La rotta di questo excursus sarà un po’ tortuosa. Prenderò il largo, come si fa in questi casi, da un classico della filosofia, il Discours sur la servitude volontaire di Étienne de La Boétie, e prima di approdare alla teoria di Bellah sulla nascita della disuguaglianza politica farò sosta in altri due porti: le Lezioni di politica di Gianfranco Miglio e The Sources of Social Power di Michael Mann. Le due opere non sono scelte a caso: come Bellah, Mann e Miglio si definiscono weberiani e non temono la longue durée. Quello che più importa, però, è che, come Bellah, Miglio e Mann non hanno problemi ad applicare sistematicamente i concetti e le teorie delle scienze sociali alle questioni che da sempre attirano la curiosità degli storici e dei filosofi della storia e della politica. Il confronto permette di apprezzare i punti di forza e le debolezze delle diverse spiegazioni scientifiche e di comprendere appieno lo sforzo e i risultati di Bellah. Partiamo dunque dal Discours sur la servitude volontaire, un testo del xvi secolo che conserva una freschezza straordinaria. Nel porsi la domanda sulla disuguaglianza e il dominio – «Com’è possibile che tanti uomini, tanti borghi, tante città, tante nazioni sopportino talvolta un tiranno solo, che non ha forza se non quella che essi gli danno, che ha il potere di danneggiarli in quanto essi vogliono sopportarlo»? – La Boétie [NdA: È. de La Boétie, Discorso sulla servitù volontaria, trad. it., Chiarelettere, Milano 2011, p. 4] anticipa già la risposta giusta: si subisce il potere quando l’abitudine, la fascinazione, il tornaconto e il carisma altrui – tutti aspetti «esterni» – scivolano impercettibilmente a formare una immediata volontà, così che chi sta sotto lo fa, in qualche modo, spontaneamente. «È il popolo che acconsente al suo male o addirittura lo provoca», uscendo da una originaria condizione di obbedienza – quella della relazione tra padre e figlio – che però non ha nulla a che fare con la servitù «snaturante» della tirannide [NdA: Ibidem, p. 10 e p. 14]. Come afferma Pierre Clastres [NdA: P. Clastres, Libertà, malencontre, innominabile, in Id., L’anarchia selvaggia. Le società senza stato,senza fede, senza legge, senza re, trad. it., Elèuthera, Milano 2013, p. 77] in un commento a sua volta celebre, il punto di La Boétie è che «la divisione della società tra chi comanda e chi obbedisce fu accidentale» – ovvero, come scrive Enrico Donaggio [NdA: Vedi E. Donaggio, Introduzione, in. É de La Boétie, Discorso della servitù volontaria, trad. it., Feltrinelli, Milano in corso di stampa, il corsivo è mio], la sottomissione è «il risultato modificabile di una serie di circostanze che possono indurre a dimenticare, anche completamente, quel desiderio di libertà che solo fa di ciascuno di noi un essere umano». In altre parole, come dimostra l’esistenza di molteplici «società contro lo Stato», il dominio politico sarebbe «senza necessità» [NdA: Riprendo il titolo del più celebre libro di P. Clastres (La società contro lo stato. Ricerche di antropologia politica, trad. it., Ombrecorte, Verona 2003), senza entrare nella polemica sull’uso del termine “stato” – che io sarei propenso a riservare alla forma politica della modernità. Cfr. su questo M. Bortolini, La macchina dell’immunità, in A. Cevolini (a cura di), Potere e modernità. Stato, diritto, costituzione, Franco Angeli, Milano 2007, pp. 131-159]. Mi pare che i problemi consegnati da La Boétie alla riflessione sulla nascita della disuguaglianza politica siano due. Il primo è quello della volontarietà della sottomissione: com’è possibile che individui, famiglie e gruppi originariamente liberi decidano di piegarsi al potere di uno solo? Il secondo riguarda invece il grado di ineluttabilità della sottomissione e, di converso, la possibilità di liberarsi dal dominio. Dal punto di vista delle scienze sociali la prima questione è riconducibile alla problematica del volontarismo [NdA: Non a caso la formulazione classica del volontarismo prende le mosse da una considerazione delle filosofie politiche di Thomas Hobbes e John Locke. Vedi T. Parsons, La struttura dell’azione sociale, trad. it., il Mulino, Bologna 1986], mentre la seconda può essere rifiutata senza grandi patemi – l’emergere della disuguaglianza politica non è accidentale né modificabile con un semplice atto di volontà. Tale rifiuto non dipende dall’assunzione, magari implicita, di una qualche forma di funzionalismo o teleologismo vecchio stile – qualcosa del tipo: «L’emergere della disuguaglianza è un fenomeno comunque positivo (o adattivo) per l’umanità» [NdA: Vedi su questo R.N. Bellah, Introduzione: la sfida «assiale» della contemporaneità cit., soprattutto nella parte dedicata all’Habermas di Per una ricostruzione del materialismo storico].Come vedremo tra un attimo, le spiegazioni più convincenti mettono al centro l’idea della path dependency ovvero una concezione stratificata della realtà: una volta che la configurazione dei fattori biologici, psicologici, sociali e culturali ha dato origine a capacità e potenzialità nuove e inedite, lo sviluppo sociale e culturale, e più in generale «umano», imbocca una strada che non può essere abbandonata facilmente. Come vedremo, Miglio, Mann e Bellah si concentrano sul medesimo meccanismo: una variazione accidentale, spesso legata a una vittoria militare, mette temporaneamente al vertice di una società di uguali un capo militare o il gruppo dei guerrieri trionfanti. La disuguaglianza politica nasce dunque come consolidamento di tale posizione sovraordinata a partire da una primigenia condizione di fluidità sociale e societaria. Ciò che divide i tre scienziati sociali è l’individuazione delle condizioni necessarie e sufficienti perché ciò avvenga. Vediamo come. Le Lezioni di politica di Gianfranco Miglio hanno una impostazione logico-analitica, fondata su una chiara distinzione tra due tipi di relazione: l’obbligazione politica e il contratto-scambio. Oggetto della prima è «la garanzia che cerchiamo di assicurarci di fronte a bisogni che sono globalmente esistenziali ma che non sono ancora specificati» [NdA: G. Miglio, Lezioni di politica. Scienza della politica, il Mulino, Bologna 2011, vol. ii, p. 153]. Si tratta di un modo per vincolare il futuro che tiene aperte, e forse allarga, le opportunità sia per quanto riguarda gli scopi («un fine globale e indeterminato») sia per quanto riguarda i mezzi socialmente disponibili. Se l’obbligazione politica è una «cambiale in bianco», il contratto-scambio perfetto è quello che definisce precisamente oggetto, mezzi e, soprattutto, tempi [NdA: Ibidem, p. 162 e sgg]. Inoltre, diversamente dalla responsabilità limitata e circoscritta dei contratti, il capo politico riceve un mandato fiduciario che rende di fatto impossibile applicare il principio di responsabilità – nonché l’idea stessa di «diritto» – ai rapporti di potere [NdA: Ibidem, p. 171-173; vedi anche lo schema riassuntivo a p. 184. Miglio sottoscrive inoltre la «scoperta» di Vilfredo Pareto per cui la politica è «il regno dell’irrazionale» (pp. 194-195)]. Combinata alla «legge di gravitazione» della politica – «creato un rapporto politico, questo tende ad assorbire tutte le sfere che interessano coloro che sono coinvolti» – la distinzione tra obbligazione e contratto rende la domanda di La Boétie ancora più preoccupante: se è vero che qualunque relazione politica tende ad ampliarsi a dismisura, a tracimare e inghiottire gli altri rapporti sociali senza che sia possibile porle un freno o un termine temporale, trovare una risposta al perché gli uomini si sottomettano ad altri uomini non è più rimandabile. Fedele al principio evolutivo del movimento dal semplice al complesso [NdA: Ibidem, p. 145], Miglio basa la sua risposta su una ricostruzione ipotetica della transizione dalla caccia ai piccoli animali alla «caccia grossa», che rappresenta una condizione e un esito insieme della capacità di immaginare il futuro e di anticipare le necessità e i bisogni della collettività lungo un arco temporale che supera e trascende il qui-e-ora tipico dell’orda primitiva [NdA: Ibidem, p. 147. Tornerò su questo punto parlando di Bellah]. La necessità di catturare, uccidere e ripartire animali di grossa taglia comporta, secondo Miglio, una trasformazione delle relazioni sociali: stabilizzazione del gruppo, comunicazioni più raffinate ed esplicite, forme rudimentali di divisione del lavoro e, quindi, l’imporsi di «capocaccia» capaci di farsi carico – a questo punto ancora occasionalmente – dei bisogni collettivi [NdA: Ibidem, p. 188]. Date queste premesse, la spiegazione di Miglio prende una piega particolare, che potremmo definire individualistica e naturalistica insieme. Convivendo in un gruppo che va strutturandosi, gli individui – ognuno dei quali è per Miglio «unico e [...] profondamente diseguale» rispetto agli altri [NdA: Ibidem, p. 189] – cominciano a confrontare i propri bisogni e si accorgono di avere necessità analoghe, alle quali però attribuiscono valore diverso. La conversazione sfuma in una sorta di discussione continua in cui si esprimono, si scontrano e si modificano giudizi di valore, e da cui emergono alcuni individui dotati di una superiore capacità di persuasione. Miglio vede tale facoltà come una caratteristica del tutto personale:

Lo sgranarsi delle capacità persuasive in una coesistenza di individui è effetto dell’individualità e dell’unicità di ciascun individuo e della capacità persuasiva che taluni possiedono, a differenza di altri.

L’affermarsi di una opinione comune e diffusa, allora, dipende dalla capacità che alcuni persuasori hanno di imporre la propria definizione della situazione, in termini cognitivi e valutativi, e forse anche estetici, sugli altri, secondo un complesso meccanismo di persuasione a catena – da un «superpersuasore» alla collettività attraverso persuasori intermedi – che ricorda la teoria del flusso a due fasi di Elihu Katz e Paul F. Lazarsfeld. Il risultato è una verticizzazione della coesistenza che avviene, per Miglio, «insensibilmente senza che nessuno se ne accorga» [NdA: Ibidem, p. 191]. La società assume la forma tridimensionale di una sfera il cui centro, occupato dal «persuasore-principe», è caratterizzato da un livello di compattezza e coerenza, e quindi di potenza, assai superiore a quello delle zone periferiche, in cui si distribuiscono persuasori minori e i semplici «individui» [NdA: Ibidem, p. 192]. Dalle opinioni procede l’azione, che è sempre azione individuale, sebbene l’assenza di qualsivoglia «volontà collettiva» non comporti affatto l’immunizzazione dell’attore sociale. Con il consolidarsi dei rapporti il consenso per le posizioni del persuasore si trasforma in vera e propria adesione all’azione del leader, che, grazie a ripetuti successi personali, fonda e consolida il suo carisma «politico» – cioè privo di limiti predeterminati. Da questo punto in poi la relazione di obbligazione politica è operativa e la storia può essere ricostruita come la sequenza dei cicli di ascesa e decadenza dei gruppi dominanti. La spiegazione di Miglio è assai chiara: date le disposizioni, le capacità e, in poche parole, la costituzione degli esseri umani, l’emergere delle strutture di esercizio del potere, e dunque l’istituzionalizzarsi della disuguaglianza politica, è del tutto naturale. Parallelamente, l’affermarsi di alcuni individui come capi dipende anzitutto da qualità innate. Nonostante qualche virgoletta strategica, le parole di Miglio non lasciano spazio a dubbi:

Questo processo, che come visto viene svolto da persuasori «naturali», vocati, dotati «naturalmente» per esercitare questa funzione, è la molla che aggrega e che rende stabile il tessuto dei rapporti fra questi soggetti e fra questi individui

[NdA: Ibidem, p. 193. Le Lezioni di Miglio sono in realtà trascrizioni di corsi universitari non riviste dall’autore, quindi le virgolette sono state apposte dai curatori]. La dinamica si gioca tra necessità materiali (reperimento delle risorse adeguate a una popolazione crescente), relazioni sociali (divisione del lavoro sociale e spartizione del bottino) e qualità psicologiche individuali (capacità di influenzare e farsi influenzare). Manca la dimensione culturale che dovrebbe «regolare gli scambi» tra il binario degli interessi e quello delle inclinazioni e delle emozioni individuali grazie al «senso oggettivato» delle visioni del mondo elaborate in processi collettivi e impersonali. Il ragionamento, inoltre, è integralmente logico-analitico: presenta ipotesi generali che pretendono di riferirsi senza mediazioni all’esperienza comune, a «regolarità umane» che il lettore può presumere di esperire proprio come le esperiva il membro di una delle orde primitive evocate dall’autore. La dimensione storica è, in altre parole, del tutto assente. Le ipotesi di Miglio, ostinatamente riduzionistiche, ci lasciano tre domande tipicamente weberiane: di che tipo sono le «capacità innate» che il capo deve possedere per trasformare un carisma personale e temporaneo in una struttura durevole di potere, capace di sopravvivergli «impersonalmente» come forma sociale? È possibile che tali capacità si legittimino da sé, che possano, cioè, essere talmente autoevidenti e irresistibili da non necessitare di una storia, di una narrazione, di una pratica capace di conferire loro un senso sociale determinato e convincente? È possibile che questo processo sia stato il medesimo in tutte le società esistite? È possibile, in altre parole, che il percorso storico si possa ridurre a una questione logica e che le diverse formazioni sociali-storiche siano sussumibili sotto un medesimo modello? Ciò che manca alla spiegazione di Miglio, dimensione culturale e profondità storica, dovrebbe essere il punto di forza del modello presentato da Michael Mann in The Sources of Social Power [NdA: M. Mann, The Sources of Social Power: A History of Power from the Beginning to A.D. 1760, Cambridge University Press, Cambridge 1986, vol i. Neanche a dirlo, l’opera di Mann è pervicacemente ignorata in Italia. Vedi anche i testi raccolti in J. A. Hall, R. Schroeder (a cura di), An Anatomy of Power: The Social Theory of Michael Mann, Cambridge University Press, Cambridge 2006]. Multidimensionale, multicausale e radicalmente storicista [NdA: Ancor più di Luhmann e Bellah, anche l’anti-evoluzionista Mann nega esplicitamente la possibilità di teorizzare i rapporti causali tra i diversi fattori; nel suo efficace schema illustrativo la maggior parte delle sequenze causali è definita «troppo complessa per essere teorizzata». Vedi M. Mann, The Sources of Social Power cit., p. 28 e sgg], lo schema teorico di Mann si basa su una comprensione delle «società» come sovrapposizioni articolate e indeterminate di molteplici reti di poteri e mette al centro dell’analisi la capacità di organizzare e controllare persone, materiali e territori. In breve, afferma Mann, nel perseguimento dei loro scopi, gli esseri umani instaurano molteplici reti di interazione sociale, i cui confini e capacità non coincidono. Alcune di queste reti posseggono una speciale capacità di organizzare cooperazione sociale intensiva ed estensiva, diffusa e dotata di autorità [NdA: Ibidem, pp. 27-28]. Pur non esaurendo le possibilità di interazione e organizzazione, le reti più potenti e rilevanti fanno capo a quattro tipi di potere. Il potere economico è definito come la capacità di organizzare oggetti naturali e rapporti sociali in specifici «circuiti di prassi» finalizzati a soddisfare i bisogni di sussistenza [NdA: Ibidem, p. 24]. Il potere militare consiste nella predisposizione, coordinamento e uso della forza fisica in qualunque punto della formazione storico-sociale, mentre il potere politico si riferisce in senso stretto all’organizzazione centralizzata e territorializzata (e quindi impostata su un asse interno/esterno) dei nessi coercitivi per la regolazione delle relazioni umane [NdA: Ibidem, pp. 25-26. Critiche su questo punto sono state espresse da G. Poggi in Political power un-manned, in Hall, Schroeder, An Anatomy of Power cit., pp. 135-149]. Buon ultimo, ma più interessante per noi, il potere ideologico, che comprende le dimensioni cognitive, normative ed estetiche attraverso le quali avvengono i processi di attribuzione di senso. Secondo Mann il potere ideologico si articola in un tipo trascendente (particolarmente potente perché capace di proiettarsi al di là delle forme secolari dell’autorità) e in un tipo immanente (il/la morale che può rafforzare la coesione e l’integrazione di un gruppo) [NdA: M. Mann, The Sources of Social Power cit., pp. 22-24. Su questo vedi P.S. Gorski, Mann’s theory of ideological power: sources, applications and elaborations, in J.A. Hall,R. Schroeder, An Anatomy of Power cit., pp. 101-134, che riprenderò anche più avanti]. L’idea è che le quattro forme del potere – che danno il nome al modello «IEMP» – si intreccino in configurazioni diverse senza che sia possibile determinare teoricamente, cioè ex ante, il loro peso relativo. La storia di Mann prende le mosse da un chiaro rifiuto dell’evoluzionismo e da una teoria della strutturazione del potere come processo di graduale «ingabbiamento» (caging), cioè di autovincolamento delle formazioni sociali alle condizioni della propria riproduzione che non esclude arretramenti e «devoluzioni». Il passaggio dalle tribù di cacciatori-raccoglitori alle prime società agricole è visto come un progressivo consolidarsi degli investimenti di gruppi e famiglie su manufatti e tecnologie – «strumenti, magazzini, campi, dighe e così via» – nonché di durevoli relazioni di produzione e scambio che creano una cultura materiale e simbolica condivisa tra le generazioni [NdA: M. Mann, The Sources of Social Power cit., p. 44]. Tale assestamento produce il potere collettivo necessario a organizzare e riprodurre la divisione del lavoro, ma non una stabile struttura di autorità [NdA: Ibidem, p. 68]. Mann riprende il tema della società contro lo Stato rifacendosi a Clastres e alle teorie di James Woodburn sull’«eguaglianza assertiva» [NdA: Ibidem, p. 53 e pp. 47-48]: le società preistoriche sono caratterizzate da una situazione di estrema autonomia, che esclude la possibilità di coercizione:

La debolezza dei legami sociali, insieme alla capacità di liberarsi di qualsivoglia rete di potere, era il meccanismo grazie al quale poteva scattare la devoluzione [...] Nelle società non-civilizzate è ancora possibile sfuggire alla gabbia sociale

[NdA: Ibidem, p. 39]. Come mostrano gli esempi di Mann, la storia della maggior parte delle società esistite è una ripetuta oscillazione tra tentativi di strutturazione e arretramenti verso una situazione più fluida e de-istituzionalizzata. Eppure, in un numero limitato e assai noto di casi si è verificato una transizione epocale e il traballante prestigio dei capi tribali, sempre soggetto al controllo e al capriccio della collettività, si è tramutato in stabile potere coercitivo, indipendente dalle contingenze e dalle persone coinvolte. Un salto di qualità nel processo di ingabbiamento fa nascere quelle che chiamiamo «civilizzazioni»: società caratterizzate da legami stretti, basate su urbanizzazione, centri cerimoniali e scrittura [NdA: ]50. Per Mann ognuno dei sei casi conosciuti – Mesopotamia, Antico Egitto, Valle dell’Indo, Cina settentrionale, Maya e Aztechi, e Inca peruviani – fa storia a sé senza che si possa individuare una tendenza evolutiva generale, così che, dall’emergere delle prime civilizzazioni in poi, la storia è, e sarà sempre, «storia locale» [NdA: ]51. Ciononostante la sua strategia argomentativa è costruita su un caso «principe» e una sintetica considerazione degli altri. La nascita delle civilizzazioni nelle grandi pianure alluvionali della Mesopotamia è da ricondursi, per Mann, alle potenti dinamiche di stabilizzazione che derivano dall’affermarsi dell’agricoltura su vasta scala. La vita sedentaria permette e incoraggia la suddivisione della terra secondo forme di proprietà privata che tendono a strutturare e a concentrare la ricchezza in un centro (core) territoriale che inesorabilmente acquisisce una posizione di preminenza su una periferia più instabile, mobile e povera. In un primo momento si costituiscono relazioni patrono/cliente fondate sulla proprietà della terra e forme di scambio e commercio che avvantaggiano gli attori che occupano posizioni strategiche. In un secondo momento, le relazioni di patronage si consolidano in una vera e propria struttura centralizzata di gestione e redistribuzione delle risorse necessarie al funzionamento del sistema dell’economia alluvionale. L’istituzione del «tempio» emerge intorno al 3000 a.C. come luogo di stoccaggio, scambio e redistribuzione delle derrate alimentari e richiede fin da subito la creazione di strutture militari di difesa [NdA: ]52. Mann sottolinea con forza il ruolo «politico» del tempio nel controllo dell’irrigazione e come luogo di arbitraggio delle controversie tra i villaggi. La «religione» c’entra poco: Gli studiosi moderni non accettano le connotazioni religiose della parola «sacerdozio» in Mesopotamia. Considerano i preti in senso secolare, più amministrativo e politico, come corpo diplomatico, amministratori dell’irrigazione e operatori di redistribuzione [...] La principale funzione del tempio sumero divenne la gestione dell’irrigazione e tale rimase per migliaia di anni [NdA: ]53. Anche le testimonianze scritte – tavolette che riportano lunghe liste di beni, contratti e divinità – dimostrano, secondo Mann, che i «templi non erano che negozi decorati, e gli scrittori di tavolette più impiegati che preti». Gli dèi sono dunque i «guardiani» di importanti snodi commerciali,

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