Sociologia54

Da Ortosociale.

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Religion in Human Evolution parte dal Big Bang e si ferma all’Epoca assiale, 2500 anni fa. È difficile, se non impossibile, avvicinarsi alle sue settecento, densissime pagine senza provare un misto di interesse e inquietudine. È un’opera che affronta un oggetto incandescente, che trascende i confini disciplinari a cui siamo abituati per portarci in uno spazio di cui non sappiamo quasi nulla. Un’opera che fonde i tempi storici per trarre dall’evoluzione una lezione di profonda umiltà [NdA: Ibidem, p. 597 e sgg]. Un’opera che nell’epoca dei microracconti assume una postura, la grande narrazione, che non ci attendiamo: Questo libro [...] è un tentativo di rivivere quei momenti che ci appartengono nelle profondità del nostro presente, di trarre acqua vivente dal pozzo del passato, di trovare amici nella storia che possano aiutarci a capire chi siamo [NdA: Ibidem, pp. xxii-xxiii]. Forse, direbbe Sigmund Freud, per rendere meno perturbante l’esperienza di ''Religion in Human Evolution'' dovremmo ricostruire la sua storia profonda, portando alla luce ciò che è nascosto nel suo inconscio. Ci provo. Chi conosce il lavoro di Robert Bellah sa che Religion in Human Evolution viene da lontano. Già nel 1963, nell’ambito di un seminario harvardiano condotto con Talcott Parsons e Shmuel N. Eisenstadt, Bellah aveva tratteggiato una teoria evolutiva della religione fondata sul classico principio per cui le «forme più complesse si sviluppano a partire da forme più semplici e [...] le proprietà e le possibilità delle forme più complesse differiscono da quelle delle forme più semplici» [NdA: La citazione viene da R.N. Bellah, Religious evolution, “American sociological review”, vol. 29 (1964), n° 3, ora in Id., Beyond Belief: Essays on Religion in a Post-traditional World, Harper and Row,New York 1970, p. 21. Vedi J.Z. Smith, [http://blogs.ssrc.org/tif/2011/12/21/a-damned-good-read/ A damned good read, “The immanent frame” 2011],  (accesso 18 maggio 2013)]. In realtà, il primo abbozzo della teoria risaliva addirittura al periodo in cui Bellah aveva studiato a Montreal sotto la guida di Wilfred Cantwell Smith – parliamo del 1956, cioè 55 anni prima della pubblicazione di ''Religion in Human Evolution''. L’evoluzione delle religioni costituiva inoltre il filo rosso dei corsi universitari proposti da Bellah agli ''undergraduate'' di Harvard e, dal 1967, di Berkeley. Anno dopo anno, e indipendentemente dalla direzione assunta dalla sua ricerca, il sociologo americano ha dedicato gran parte delle sue lezioni alla storia evolutiva dei simboli, pratiche e organizzazioni religiose in contesti sociali e culturali diversi. Nel corso del 1980 troviamo alcune straordinarie continuità: l’architrave teorica è già costruita su autori e temi fondamentali per la prima parte di ''Religion in Human Evolution'': Alfred Schütz e le realtà multiple, Abraham Maslow e i tipi di cognizione, Jerome Bruner e le forme di coscienza – oltre, naturalmente, ai classici Max Weber ed Émile Durkheim. Qualche anno dopo, in un articolo intitolato ''How I Teach The Introductory Course'', Bellah ragionava sul suo framework con queste parole:  
Religion in Human Evolution parte dal Big Bang e si ferma all’Epoca assiale, 2500 anni fa. È difficile, se non impossibile, avvicinarsi alle sue settecento, densissime pagine senza provare un misto di interesse e inquietudine. È un’opera che affronta un oggetto incandescente, che trascende i confini disciplinari a cui siamo abituati per portarci in uno spazio di cui non sappiamo quasi nulla. Un’opera che fonde i tempi storici per trarre dall’evoluzione una lezione di profonda umiltà [NdA: Ibidem, p. 597 e sgg]. Un’opera che nell’epoca dei microracconti assume una postura, la grande narrazione, che non ci attendiamo: Questo libro [...] è un tentativo di rivivere quei momenti che ci appartengono nelle profondità del nostro presente, di trarre acqua vivente dal pozzo del passato, di trovare amici nella storia che possano aiutarci a capire chi siamo [NdA: Ibidem, pp. xxii-xxiii]. Forse, direbbe Sigmund Freud, per rendere meno perturbante l’esperienza di ''Religion in Human Evolution'' dovremmo ricostruire la sua storia profonda, portando alla luce ciò che è nascosto nel suo inconscio. Ci provo. Chi conosce il lavoro di Robert Bellah sa che Religion in Human Evolution viene da lontano. Già nel 1963, nell’ambito di un seminario harvardiano condotto con Talcott Parsons e Shmuel N. Eisenstadt, Bellah aveva tratteggiato una teoria evolutiva della religione fondata sul classico principio per cui le «forme più complesse si sviluppano a partire da forme più semplici e [...] le proprietà e le possibilità delle forme più complesse differiscono da quelle delle forme più semplici» [NdA: La citazione viene da R.N. Bellah, Religious evolution, “American sociological review”, vol. 29 (1964), n° 3, ora in Id., Beyond Belief: Essays on Religion in a Post-traditional World, Harper and Row,New York 1970, p. 21. Vedi J.Z. Smith, [http://blogs.ssrc.org/tif/2011/12/21/a-damned-good-read/ A damned good read, “The immanent frame” 2011],  (accesso 18 maggio 2013)]. In realtà, il primo abbozzo della teoria risaliva addirittura al periodo in cui Bellah aveva studiato a Montreal sotto la guida di Wilfred Cantwell Smith – parliamo del 1956, cioè 55 anni prima della pubblicazione di ''Religion in Human Evolution''. L’evoluzione delle religioni costituiva inoltre il filo rosso dei corsi universitari proposti da Bellah agli ''undergraduate'' di Harvard e, dal 1967, di Berkeley. Anno dopo anno, e indipendentemente dalla direzione assunta dalla sua ricerca, il sociologo americano ha dedicato gran parte delle sue lezioni alla storia evolutiva dei simboli, pratiche e organizzazioni religiose in contesti sociali e culturali diversi. Nel corso del 1980 troviamo alcune straordinarie continuità: l’architrave teorica è già costruita su autori e temi fondamentali per la prima parte di ''Religion in Human Evolution'': Alfred Schütz e le realtà multiple, Abraham Maslow e i tipi di cognizione, Jerome Bruner e le forme di coscienza – oltre, naturalmente, ai classici Max Weber ed Émile Durkheim. Qualche anno dopo, in un articolo intitolato ''How I Teach The Introductory Course'', Bellah ragionava sul suo framework con queste parole:  
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<br>''Immagino di dover accettare il fatto di essere disperatamente hegeliano. Lo schema dell’evoluzione religiosa ha, ovviamente, un fondamento hegeliano, così come lo è, in molti sensi, l’intero progetto parsonsiano. L’idea di uno sviluppo e l’idea di un movimento da uno stadio all’altro che si realizza mediante il conflitto e il superamento di alcune antinomie stanno alla base del mio modo di pensare''
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<br><br>''Immagino di dover accettare il fatto di essere disperatamente hegeliano. Lo schema dell’evoluzione religiosa ha, ovviamente, un fondamento hegeliano, così come lo è, in molti sensi, l’intero progetto parsonsiano. L’idea di uno sviluppo e l’idea di un movimento da uno stadio all’altro che si realizza mediante il conflitto e il superamento di alcune antinomie stanno alla base del mio modo di pensare''
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<br>[NdA: Vedi R.N. Bellah, ''How I teach the introductory course'', in M. Juergensmeyer (a cura di), Teaching the Introductory Course in Religious Studies: A Sourcebook, Scholars Press, Atlanta 1991, p. 194]. Dal punto di vista degli esempi, benché non parlasse ancora di «epoca assiale», Bellah dedicava già parecchie lezioni ai casi della parte finale del suo libro – l’antico Israele e la Cina Shang, Platone e Confucio [NdA: Gli appunti del corso “Sociology 146. Sociology of religion. Winter 1980”, University of California, Berkeley, mi sono stati forniti da Sam Porter, che ringrazio]. È piuttosto evidente che l’evoluzione delle religioni non era, per Bellah, un impegno tra gli altri. Si trattava, al contrario, di una vera e propria vocazione – un compito che lui stesso si era assegnato all’inizio del suo percorso intellettuale. Studente prediletto di Parsons al Department of Social Relations di Harvard negli anni Cinquanta, Bellah era stato l’oggetto di grandi aspettative – il suo mentore lo considerava il migliore teorico tra i suoi studenti, superiore anche a Robert K. Merton [Sulle vicende personali e intellettuali di Bellah, e in generale sugli episodi a cui accenno nel testo, rimando a M. Bortolini, L’intellettuale in campo. Il caso di Robert N. Bellah, Armando, Roma 2013.]. Interiorizzando tali attese come uno degli elementi dell’immagine di sé come intellettuale destinato ai più
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<br><br>[NdA: Vedi R.N. Bellah, ''How I teach the introductory course'', in M. Juergensmeyer (a cura di), Teaching the Introductory Course in Religious Studies: A Sourcebook, Scholars Press, Atlanta 1991, p. 194]. Dal punto di vista degli esempi, benché non parlasse ancora di «epoca assiale», Bellah dedicava già parecchie lezioni ai casi della parte finale del suo libro – l’antico Israele e la Cina Shang, Platone e Confucio [NdA: Gli appunti del corso “Sociology 146. Sociology of religion. Winter 1980”, University of California, Berkeley, mi sono stati forniti da Sam Porter, che ringrazio]. È piuttosto evidente che l’evoluzione delle religioni non era, per Bellah, un impegno tra gli altri. Si trattava, al contrario, di una vera e propria vocazione – un compito che lui stesso si era assegnato all’inizio del suo percorso intellettuale. Studente prediletto di Parsons al Department of Social Relations di Harvard negli anni Cinquanta, Bellah era stato l’oggetto di grandi aspettative – il suo mentore lo considerava il migliore teorico tra i suoi studenti, superiore anche a Robert K. Merton [Sulle vicende personali e intellettuali di Bellah, e in generale sugli episodi a cui accenno nel testo, rimando a M. Bortolini, L’intellettuale in campo. Il caso di Robert N. Bellah, Armando, Roma 2013.]. Interiorizzando tali attese come uno degli elementi dell’immagine di sé come intellettuale destinato ai più

Versione delle 18:38, 27 apr 2015

Storie, religioni e capi sanguinari


di Matteo Bortolini, Dipartimento FISPPA Università di Padova, [matteo.bortolini@unipd.it]. Riflessioni sull’opus magnum di Robert Bellah [NdA:Una versione ridotta del primo paragrafo è stata pubblicata col titolo Back to his roots, “The immanent frame” 2012. Ringrazio Jonathan VanAntwerpen e The immanent frame per il permesso di pubblicare la traduzione italiana di quello scritto, René Capovin per avermi spinto a rileggere Gianfranco Miglio, e soprattutto Paolo Costa per la collaborazione e l’amicizia di cui mi fa dono da molti anni]. Tratto da "FENOMENOLOGIA E SOCIETÀ Periodico di filosofia a cura del Centro di Ricerche socioculturali n. 2/2013 anno XXXIV"



No, non è un bene il comando di molti;
uno sia il capo, uno il re.
Omero, citato da Étienne de La Boétie


Quando scriviamo di persone in carne e ossa siamo obbligati a ripeterci l’ammonimento di Pierre Bourdieu: non lasciatevi affascinare dal vostro soggetto! È il prezzo che paghiamo per sfuggire alla fallacia biografica [NdA: P. Bourdieu, Ragioni pratiche, trad. it., il Mulino, Bologna 1995, p. 71 e sgg. Uno dei fondamenti di questo saggio, come di altri miei lavori, è il rifiuto di una rigida distinzione tra «storia» e «sistematica» della sociologia, ovvero di una rigida distinzione tra analisi contestualista e lettura presentista degli oggetti culturali e simbolici. Nel prosieguo del saggio cerco di pendolare continuamente tra le due posizioni, come suggerito da Charles Camic nell’introduzione di Reclaiming the Sociological Classics: The State of the Scholarship, Wiley-Blackwell, Oxford 1997.], la tentazione di ricostruire le esistenze individuali come se fossero storie coerenti, finalizzate, prive di cesure e discontinuità. Bourdieu ha ragione. Le vite dei nostri soggetti sono, come le nostre, un’accozzaglia insensata di abitudini e novità, decisioni e distrazioni, strategie e sciocchezze, possibilità e rimpianti. Al tempo stesso però, come ci ricorda Robert N. Bellah, siamo animali narrativi, esseri che non possono non raccontare storie. E le narrazioni si organizzano per simboli – la loro verità «non nasce dalla conformità delle singole parole o proposizioni alla “realtà”, ma dalla coerenza della storia presa nel suo complesso. Come una poesia non può essere parafrasata senza perdere il suo significato», così ogni narrazione deve mantenere una sua unità di fondo – deve parlarci di un eroe che compie un’impresa, deve avere un inizio, uno sviluppo e un finale [NdA: R.N. Bellah, Religion in Human Evolution: From the Paleolithic to the Axial Age, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 2011, p. 33.] Per raccontare dell’uomo e delle sue religioni Bellah ha scritto un volume complesso e stratificato, in cui si intrecciano narrazioni e simboli diversi e, in apparenza, incompatibili – e d’altronde, come afferma Paolo Costa, «ogni storia, comprese le narrazioni evoluzionistiche, ha una matrice, in senso lato, “autobiografica”» [NdA: P. Costa, L’evoluzione di che cosa? Storia naturale, storia umana e religione secondo Robert Bellah, in questo numero]. Seguendo l’esempio di Bellah vorrei mescolare personale e globale, lunga e breve durata, teoria e mito per raccontare un paio di storie.

Biografia di un’opera

Religion in Human Evolution parte dal Big Bang e si ferma all’Epoca assiale, 2500 anni fa. È difficile, se non impossibile, avvicinarsi alle sue settecento, densissime pagine senza provare un misto di interesse e inquietudine. È un’opera che affronta un oggetto incandescente, che trascende i confini disciplinari a cui siamo abituati per portarci in uno spazio di cui non sappiamo quasi nulla. Un’opera che fonde i tempi storici per trarre dall’evoluzione una lezione di profonda umiltà [NdA: Ibidem, p. 597 e sgg]. Un’opera che nell’epoca dei microracconti assume una postura, la grande narrazione, che non ci attendiamo: Questo libro [...] è un tentativo di rivivere quei momenti che ci appartengono nelle profondità del nostro presente, di trarre acqua vivente dal pozzo del passato, di trovare amici nella storia che possano aiutarci a capire chi siamo [NdA: Ibidem, pp. xxii-xxiii]. Forse, direbbe Sigmund Freud, per rendere meno perturbante l’esperienza di Religion in Human Evolution dovremmo ricostruire la sua storia profonda, portando alla luce ciò che è nascosto nel suo inconscio. Ci provo. Chi conosce il lavoro di Robert Bellah sa che Religion in Human Evolution viene da lontano. Già nel 1963, nell’ambito di un seminario harvardiano condotto con Talcott Parsons e Shmuel N. Eisenstadt, Bellah aveva tratteggiato una teoria evolutiva della religione fondata sul classico principio per cui le «forme più complesse si sviluppano a partire da forme più semplici e [...] le proprietà e le possibilità delle forme più complesse differiscono da quelle delle forme più semplici» [NdA: La citazione viene da R.N. Bellah, Religious evolution, “American sociological review”, vol. 29 (1964), n° 3, ora in Id., Beyond Belief: Essays on Religion in a Post-traditional World, Harper and Row,New York 1970, p. 21. Vedi J.Z. Smith, A damned good read, “The immanent frame” 2011, (accesso 18 maggio 2013)]. In realtà, il primo abbozzo della teoria risaliva addirittura al periodo in cui Bellah aveva studiato a Montreal sotto la guida di Wilfred Cantwell Smith – parliamo del 1956, cioè 55 anni prima della pubblicazione di Religion in Human Evolution. L’evoluzione delle religioni costituiva inoltre il filo rosso dei corsi universitari proposti da Bellah agli undergraduate di Harvard e, dal 1967, di Berkeley. Anno dopo anno, e indipendentemente dalla direzione assunta dalla sua ricerca, il sociologo americano ha dedicato gran parte delle sue lezioni alla storia evolutiva dei simboli, pratiche e organizzazioni religiose in contesti sociali e culturali diversi. Nel corso del 1980 troviamo alcune straordinarie continuità: l’architrave teorica è già costruita su autori e temi fondamentali per la prima parte di Religion in Human Evolution: Alfred Schütz e le realtà multiple, Abraham Maslow e i tipi di cognizione, Jerome Bruner e le forme di coscienza – oltre, naturalmente, ai classici Max Weber ed Émile Durkheim. Qualche anno dopo, in un articolo intitolato How I Teach The Introductory Course, Bellah ragionava sul suo framework con queste parole:

Immagino di dover accettare il fatto di essere disperatamente hegeliano. Lo schema dell’evoluzione religiosa ha, ovviamente, un fondamento hegeliano, così come lo è, in molti sensi, l’intero progetto parsonsiano. L’idea di uno sviluppo e l’idea di un movimento da uno stadio all’altro che si realizza mediante il conflitto e il superamento di alcune antinomie stanno alla base del mio modo di pensare

[NdA: Vedi R.N. Bellah, How I teach the introductory course, in M. Juergensmeyer (a cura di), Teaching the Introductory Course in Religious Studies: A Sourcebook, Scholars Press, Atlanta 1991, p. 194]. Dal punto di vista degli esempi, benché non parlasse ancora di «epoca assiale», Bellah dedicava già parecchie lezioni ai casi della parte finale del suo libro – l’antico Israele e la Cina Shang, Platone e Confucio [NdA: Gli appunti del corso “Sociology 146. Sociology of religion. Winter 1980”, University of California, Berkeley, mi sono stati forniti da Sam Porter, che ringrazio]. È piuttosto evidente che l’evoluzione delle religioni non era, per Bellah, un impegno tra gli altri. Si trattava, al contrario, di una vera e propria vocazione – un compito che lui stesso si era assegnato all’inizio del suo percorso intellettuale. Studente prediletto di Parsons al Department of Social Relations di Harvard negli anni Cinquanta, Bellah era stato l’oggetto di grandi aspettative – il suo mentore lo considerava il migliore teorico tra i suoi studenti, superiore anche a Robert K. Merton [Sulle vicende personali e intellettuali di Bellah, e in generale sugli episodi a cui accenno nel testo, rimando a M. Bortolini, L’intellettuale in campo. Il caso di Robert N. Bellah, Armando, Roma 2013.]. Interiorizzando tali attese come uno degli elementi dell’immagine di sé come intellettuale destinato ai più

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