Sociologia54

Da Ortosociale.

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Religion in Human Evolution parte dal Big Bang e si ferma all’Epoca assiale, 2500 anni fa. È difficile, se non impossibile, avvicinarsi alle sue settecento, densissime pagine senza provare un misto di interesse e inquietudine. È un’opera che affronta un oggetto incandescente, che trascende i confini disciplinari a cui siamo abituati per portarci in uno spazio di cui non sappiamo quasi nulla. Un’opera che fonde i tempi storici per trarre dall’evoluzione una lezione di profonda umiltà5. Un’opera che nell’epoca dei microracconti assume una postura, la grande narrazione, che non ci attendiamo: Questo libro [...] è un tentativo di rivivere quei momenti che ci appartengono nelle profondità del nostro presente, di trarre acqua vivente dal pozzo del passato, di trovare amici nella storia che possano aiutarci a capire chi siamo6. Forse, direbbe Sigmund Freud, per rendere meno perturbante l’esperienza di Religion in Human Evolution dovremmo ricostruire la sua storia profonda, portando alla luce ciò che è nascosto nel suo inconscio. Ci provo. Chi conosce il lavoro di Robert Bellah sa che Religion in Human Evolution viene da lontano. Già nel 1963, nell’ambito di un seminario harvardiano condotto con Talcott Parsons e Shmuel N. Eisenstadt, Bellah aveva tratteggiato una teoria evolutiva della religione fondata sul classico principio per cui le «forme più complesse si sviluppano a partire da forme più semplici e
Religion in Human Evolution parte dal Big Bang e si ferma all’Epoca assiale, 2500 anni fa. È difficile, se non impossibile, avvicinarsi alle sue settecento, densissime pagine senza provare un misto di interesse e inquietudine. È un’opera che affronta un oggetto incandescente, che trascende i confini disciplinari a cui siamo abituati per portarci in uno spazio di cui non sappiamo quasi nulla. Un’opera che fonde i tempi storici per trarre dall’evoluzione una lezione di profonda umiltà5. Un’opera che nell’epoca dei microracconti assume una postura, la grande narrazione, che non ci attendiamo: Questo libro [...] è un tentativo di rivivere quei momenti che ci appartengono nelle profondità del nostro presente, di trarre acqua vivente dal pozzo del passato, di trovare amici nella storia che possano aiutarci a capire chi siamo6. Forse, direbbe Sigmund Freud, per rendere meno perturbante l’esperienza di Religion in Human Evolution dovremmo ricostruire la sua storia profonda, portando alla luce ciò che è nascosto nel suo inconscio. Ci provo. Chi conosce il lavoro di Robert Bellah sa che Religion in Human Evolution viene da lontano. Già nel 1963, nell’ambito di un seminario harvardiano condotto con Talcott Parsons e Shmuel N. Eisenstadt, Bellah aveva tratteggiato una teoria evolutiva della religione fondata sul classico principio per cui le «forme più complesse si sviluppano a partire da forme più semplici e
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[...] le proprietà e le possibilità delle forme più complesse differiscono da quelle delle forme più semplici»7. In realtà, il primo abbozzo della teoria
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[...] le proprietà e le possibilità delle forme più complesse differiscono da quelle delle forme più semplici» [NdA: La citazione viene da R.N. Bellah, Religious evolution, “American sociological review”, vol. 29 (1964), n° 3, ora in Id., Beyond Belief: Essays on Religion in a Post-traditional World, Harper and Row,New York 1970, p. 21. Vedi J.Z. Smith, [http://blogs.ssrc.org/tif/2011/12/21/a-damned-good-read/ A damned good read, “The immanent frame” 2011],  (accesso 18 maggio 2013)].
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7. In realtà, il primo abbozzo della teoria
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P. Costa, L’evoluzione di che cosa? Storia naturale, storia umana e religione secondo Robert Bellah,
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in questo numero.
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Ibidem, p. 597 e sgg.
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Ibidem, pp. xxii-xxiii.

Versione delle 17:45, 27 apr 2015

Storie, religioni e capi sanguinari


di Matteo Bortolini, Dipartimento FISPPA Università di Padova, [matteo.bortolini@unipd.it]. Riflessioni sull’opus magnum di Robert Bellah [NdA:Una versione ridotta del primo paragrafo è stata pubblicata col titolo Back to his roots, “The immanent frame” 2012. Ringrazio Jonathan VanAntwerpen e The immanent frame per il permesso di pubblicare la traduzione italiana di quello scritto, René Capovin per avermi spinto a rileggere Gianfranco Miglio, e soprattutto Paolo Costa per la collaborazione e l’amicizia di cui mi fa dono da molti anni..] Tratto da "FENOMENOLOGIA E SOCIETÀ Periodico di filosofia a cura del Centro di Ricerche socioculturali n. 2/2013 anno XXXIV"



No, non è un bene il comando di molti;
uno sia il capo, uno il re.
Omero, citato da Étienne de La Boétie


Quando scriviamo di persone in carne e ossa siamo obbligati a ripeterci l’ammonimento di Pierre Bourdieu: non lasciatevi affascinare dal vostro soggetto! È il prezzo che paghiamo per sfuggire alla fallacia biografica [NdA: P. Bourdieu, Ragioni pratiche, trad. it., il Mulino, Bologna 1995, p. 71 e sgg. Uno dei fondamenti di questo saggio, come di altri miei lavori, è il rifiuto di una rigida distinzione tra «storia» e «sistematica» della sociologia, ovvero di una rigida distinzione tra analisi contestualista e lettura presentista degli oggetti culturali e simbolici. Nel prosieguo del saggio cerco di pendolare continuamente tra le due posizioni, come suggerito da Charles Camic nell’introduzione di Reclaiming the Sociological Classics: The State of the Scholarship, Wiley-Blackwell, Oxford 1997.], la tentazione di ricostruire le esistenze individuali come se fossero storie coerenti, finalizzate, prive di cesure e discontinuità. Bourdieu ha ragione. Le vite dei nostri soggetti sono, come le nostre, un’accozzaglia insensata di abitudini e novità, decisioni e distrazioni, strategie e sciocchezze, possibilità e rimpianti. Al tempo stesso però, come ci ricorda Robert N. Bellah, siamo animali narrativi, esseri che non possono non raccontare storie. E le narrazioni si organizzano per simboli – la loro verità «non nasce dalla conformità delle singole parole o proposizioni alla “realtà”, ma dalla coerenza della storia presa nel suo complesso. Come una poesia non può essere parafrasata senza perdere il suo significato», così ogni narrazione deve mantenere una sua unità di fondo – deve parlarci di un eroe che compie un’impresa, deve avere un inizio, uno sviluppo e un finale [NdA: R.N. Bellah, Religion in Human Evolution: From the Paleolithic to the Axial Age, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 2011, p. 33.] Per raccontare dell’uomo e delle sue religioni Bellah ha scritto un volume complesso e stratificato, in cui si intrecciano narrazioni e simboli diversi e, in apparenza, incompatibili – e d’altronde, come afferma Paolo Costa, «ogni storia, comprese le narrazioni evoluzionistiche, ha una matrice, in senso lato, “autobiografica”»4. Seguendo l’esempio di Bellah vorrei mescolare personale e globale, lunga e breve durata, teoria e mito per raccontare un paio di storie.

Biografia di un’opera

Religion in Human Evolution parte dal Big Bang e si ferma all’Epoca assiale, 2500 anni fa. È difficile, se non impossibile, avvicinarsi alle sue settecento, densissime pagine senza provare un misto di interesse e inquietudine. È un’opera che affronta un oggetto incandescente, che trascende i confini disciplinari a cui siamo abituati per portarci in uno spazio di cui non sappiamo quasi nulla. Un’opera che fonde i tempi storici per trarre dall’evoluzione una lezione di profonda umiltà5. Un’opera che nell’epoca dei microracconti assume una postura, la grande narrazione, che non ci attendiamo: Questo libro [...] è un tentativo di rivivere quei momenti che ci appartengono nelle profondità del nostro presente, di trarre acqua vivente dal pozzo del passato, di trovare amici nella storia che possano aiutarci a capire chi siamo6. Forse, direbbe Sigmund Freud, per rendere meno perturbante l’esperienza di Religion in Human Evolution dovremmo ricostruire la sua storia profonda, portando alla luce ciò che è nascosto nel suo inconscio. Ci provo. Chi conosce il lavoro di Robert Bellah sa che Religion in Human Evolution viene da lontano. Già nel 1963, nell’ambito di un seminario harvardiano condotto con Talcott Parsons e Shmuel N. Eisenstadt, Bellah aveva tratteggiato una teoria evolutiva della religione fondata sul classico principio per cui le «forme più complesse si sviluppano a partire da forme più semplici e [...] le proprietà e le possibilità delle forme più complesse differiscono da quelle delle forme più semplici» [NdA: La citazione viene da R.N. Bellah, Religious evolution, “American sociological review”, vol. 29 (1964), n° 3, ora in Id., Beyond Belief: Essays on Religion in a Post-traditional World, Harper and Row,New York 1970, p. 21. Vedi J.Z. Smith, A damned good read, “The immanent frame” 2011, (accesso 18 maggio 2013)].


7. In realtà, il primo abbozzo della teoria 4

P. Costa, L’evoluzione di che cosa? Storia naturale, storia umana e religione secondo Robert Bellah,

in questo numero. 5

Ibidem, p. 597 e sgg.

6

Ibidem, pp. xxii-xxiii.
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