Fe48

Da Ortosociale.

Versione delle 19:51, 30 nov 2015, autore: Remo Ronchitelli (Discussione | contributi)
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Università estiva di Attac - Cosa abbiamo in “Comune”? di Angela Giuffrida.

Attac

Indice

L’Economia del Dono: una modalità alternativa di produzione e distribuzione

Alla domanda posta dal Convegno “Cosa abbiamo in comune?”, io rispondo: la condizione di viventi che condividiamo con tutti gli abitanti del pianeta, non solo con chi appartiene alla nostra specie. Genevieve Vaughan, teorica femminista dell’economia del dono, risalendo al latino munus, dono, sostiene che i termini “co-mune”, “co-muni-tà” abbiano a che fare con “co-muni-cazione” che vuol dire “darci doni insieme”.[Nota 1] Di pratica del dono si sono occupati altri studiosi [Nota 2], ma nessuno ha visto l’origine necessaria di tale economia nella pratica materna. Vaughan sostiene, invece, che “l’economia del dono è un’alternativa già esistente alle strutture patriarcali” e propone “di prendere le donne come norma, e la socializzazione all’identità ‘maschile’ come una deviazione da quella norma, seguendo un modello di genere creato socialmente a danno di tutti (donne, bambini e uomini)” [Nota 3]. Quando le femministe statunitensi hanno scoperto che il lavoro delle casalinghe equivale al 40% del PIL (di più in altre nazioni) hanno chiesto che fosse pagato. Vaughan, invece, afferma giustamente di considerare il lavoro gratis delle donne come un’altra modalità di distribuzione e produzione “che esiste già nella vita individuale e anche in modo occultato, nel mondo sociale, come fonte di profitto, come beni comuni non ancora mercificati, come l’acqua e l’aria, come le tradizioni del sapere comune. Queste aree di doni comuni sono rese più visibili adesso proprio dalla globalizzazione che le privatizza e le assimila al mercato, impedendo loro di far parte del mondo non monetizzato che soddisfa i bisogni gratis” [Nota 4]. L’economia nascosta del dono si identifica con le donne perché, in quanto madri, devono necessariamente prestare gratuitamente cure ai bambini piccoli, impossibilitati a dare qualcosa in cambio della soddisfazione dei loro bisogni. In tale economia la ricompensa sta nel benessere dell’altro. Dalla pratica materna di costruire e interpretare la realtà nasce quello che Vaughan chiama “paradigma del dono” il quale “sottolinea l’importanza del dare per soddisfare i bisogni ed è orientato verso il bisogno anziché verso il profitto. La pratica materna del dono rivolta ai bisogni – ciò che nella pratica materna potremmo chiamare ‘pratica di cura’ – viene spesso trascurata e può rimanere invisibile o sembrare senza significato nella società, poiché si basa su valori qualitativi invece che quantitativi. Il donare per soddisfare i bisogni però crea dei legami tra chi dona e chi riceve: riconoscere il bisogno altrui e fare in modo di soddisfarlo è riconoscere da parte di colei che dona l’esistenza dell’altro/a, così come ricevere da qualcun’altra qualcosa che soddisfi il proprio bisogno, comporta che chi riceve riconosca l’esistenza di tale altra” [Nota 5]. (corsivi miei) Il paradigma del dono si basa cioè sul riconoscimento reciproco tra chi dona e chi riceve e sulla valorizzazione di entrambi, infatti “ciascun dono reca in sé qualcosa del processo di pensiero e dei valori di chi dà e afferma il valore di chi riceve. In effetti, i beni e i servizi che vengono offerti in modo gratuito per soddisfare i bisogni, danno per implicazione valore a chi riceve” [Nota 6]. “L’opposto della pratica del dono è lo scambio, per il quale si dona allo scopo di ricevere. In questo caso sono necessari calcoli e misurazioni ed è necessario stabilire un’equivalenza tra i prodotti. Nello scambio, la tendenza logica è l’orientamento verso l’Io invece che verso l’altro” [Nota 7] e “la soddisfazione del bisogno dell’altro è soltanto un mezzo per soddisfare i propri bisogni. Quando tutti si comportano così, la co-muni-cazione risulta alterata e riesce soltanto a creare un gruppo di Io isolati, slegati e indipendenti e non una co-muni-tà” [Nota 8]. Nell’isolamento questi Io sviluppano bisogni artificiali, per soddisfare i quali utilizzano ogni mezzo compresa la violenza. La creazione di leggi e delle istituzioni che devono imporle e farle rispettare servono a mantenere questa situazione aberrante, sottraendo “i doni dai bisogni della moltitudine nella comunità” per dirigerli “verso i bisogni di gruppi specifici di scambiatori” [Nota 9]. Malgrado il paradigma del dono sia presente ovunque e richieda e incoraggi caratteristiche imprescindibili per la nostra vita, come l’orientamento verso l’altro, l’empatia e la creatività, rimane assolutamente invisibile. Eppure lo scambio vive e prospera proprio sulla generalità della pratica del dono che, però, viene definita “come inferiore o come uno scambio fallito…come un caso speciale di scambio incompleto unilaterale che non può avere esistenza propria. In realtà la logica e la pratica dello scambio sono parassitarie rispetto alla logica e alla pratica del dono” [Nota 10].

La Pratica dello Scambio parassita della Pratica del Dono

I doni vengono distribuiti dal basso verso l’alto nella gerarchia, dal povero al ricco, dai donatori agli scambiatori, eppure il flusso sembra apparentemente andare nella direzione opposta…Potremmo forse essere grati ai promotori dello scambio (gli imprenditori) per aver creato posti di lavoro, ma dovremmo renderci conto che i posti di lavoro sono un mezzo attraverso il quale gli imprenditori possono ottenere ciò che Karl Marx chiamava il ‘plusvalore’, che potremmo definire un dono gratuito di tempo e di lavoro regalatogli dal lavoratore. Per riuscire a sopravvivere, il lavoratore deve in aggiunta ricevere molti doni gratuiti da chi lo/la cura” [Nota 11]. Difatti il lavoro non retribuito delle donne, quel dono invisibile che, se monetizzato, aumenterebbe dal 30 al 50% il PIL delle varie nazioni, sostiene l’intero sistema. Per di più le donne lavoratrici sono costrette a donare più plusvalore dei loro colleghi agli imprenditori, perché pagate meno per lo stesso lavoro. Ma il flusso verso l’alto di doni è rimpinguato anche “dai non retribuiti, dai sottopagati, dai poveri, dai disoccupati (che con la loro domanda di posti di lavoro mantengono basso il ‘giusto’ costo del lavoro) e da tutti gli appartenenti alle classi sociali e ai paesi che si trovano nella posizione di dover donare a classi e a paesi privilegiati” [Nota 12]. Insomma i doni “arrivano ai ricchi dai poveri, al Nord dal Sud, alle economie basate sullo scambio dalle economie che sono ancora in una certa misura basate sul dono. I diversi tassi di scambio, livelli di vita e di autosufficienza dei paesi ‘in via di sviluppo’ fanno sì che da questi provenga un flusso di doni diretto ai cosiddetti paesi ‘sviluppati’. Non soltanto questo flusso non viene riconosciuto come tale, ma viene anche letto nel verso opposto: il Nord sembra così offrire prestiti, assistenza materiale, informazione, tecnologia, mercati, protezione e persino una ‘influenza civilizzatrice’ al Sud, mentre questo viene svuotato e paralizzato nel tentare di restituire quel ‘di più’, ossia l’interesse su ciò che gli è stato ‘dato’ mentre in realtà è servito soltanto a stimolare ulteriori doni nascosti che prosciugano i suoi capitali. Ad esempio, l’abbassamento del tenore di vita nei paesi del Terzo Mondo è funzionale al Primo Mondo in quanto fa abbassare il costo del lavoro – trasformando il differenziale del basso costo del lavoro e delle materie prime in doni collettivi dai molti del Sud attraverso i pochi nel Sud verso i pochi al Nord” [Nota 13]. “Vi sono poi i molti doni dei consumatori, che pagano troppo cari alcuni prodotti il cui costo di produzione è relativamente basso, quali la benzina…Vi sono i doni del passato, in cui il plusvalore è rappresentato dal “capitale fisso” ma anche dai doni gratuiti (soprattutto delle donne) nella manutenzione di edifici, beni, valori d’uso e persone delle generazioni precedenti – i loro figli/e, il loro linguaggio, la loro arte, cultura e i sottoprodotti delle loro vite. C’è un grosso flusso di doni non riconosciuti che scorre dal passato al presente…Ci sono poi i doni della natura, pronti per il nostro uso: l’aria, l’acqua e la luce del sole, che siamo nella condizione – resa possibile dall’evoluzione – di ricevere creativamente, ma che cominciano a inquinarsi e a scarseggiare perché vengono privatizzati o consumati di nascosto, sperperati, allo scopo di tagliare i costi (offrire doni) al servizio del paradigma dello scambio. Questo inquinamento costringe le generazioni future a consegnarci il loro potenziale utilizzo dei doni della natura, perché noi possiamo trarne un rapido profitto. Stiamo bloccando il flusso di doni che scorre verso il futuro. Nuovi generi di commercio invadono le aree del dono e se ne appropriano, dai ristoranti fast food alle lavanderie automatiche. L’eredità di tutti viene commercializzata dall’industria della biogenetica, arrivando a trasformare persino i doni gratuiti biologici dei molti nel profitto di pochi” [Nota 14]. Stando così le cose non c’è da meravigliarsi se l’inclinazione a trarre profitto si sia spinta fino alla riduzione in schiavitù che assimila le persone alle cose. D’altronde “perché si accumuli il capitale, i doni in eccedenza devono pur venire da qualche parte” e “lo scambio equo non produce profitto” [Nota 15].

La Logica della Pratica Materna del Dono

Proprio su uno scambio equo, non più basato sul profitto, si fa leva per superare le aberrazioni del capitalismo. “Una scuola di pensiero sorta recentemente in Francia, che s’ispira all’opera dell’antropologo Marcel Mauss, dedica molta attenzione alla pratica del dono che vede composta di tre momenti: dare, ricevere e restituire.L’accento che questa scuola pone sulla reciprocità nasconde la natura comunicativa del semplice donare e ricevere senza reciprocità e non permette a questo gruppo di distinguere chiaramente la pratica del dono e quella dello scambio come due paradigmi opposti. A questi sociologi sembra che la pratica del dono sia soltanto una variante dello scambio, con tempi più lunghi di restituzione e una minore attenzione all’eguaglianza; i legami sembrano ancora sorgere da una reciprocità forzata, invece che dalla soddisfazione diretta dei bisogni. Come accade per la maggior parte degli uomini, il pensiero di questi studiosi ha dei limiti, poiché essi non sono stati socializzati all’esperienza adulta di creare legami direttamente attraverso la pratica materna. La pratica del dono è per loro una semplice curiosità e non una logica di vita basata sulla madre, né un programma di cambiamento sociale” [Nota 16]. Alcuni scrittori, come ad esempio Lewis Hyde e Jerry Martien si sono interessati allo “scambio” di doni ma “tendono a vedere il modello del dono come una cosa poetica del passato, che è stata dimenticata, emarginata e sotterrata – così come la loro esperienza personale del modello del dono (con le loro madri quando erano bambini) è stata sotterrata ma continua a rimanere nell’inconscio, nei miti e nelle fiabe. Continuare a vedere la pratica del dono secondo il modello della reciprocità (cioè dello scambio) mantiene il discorso entro i parametri dello status quo patriarcale” [Nota 17]. Lo scambio continua ad essere un “doppio dono forzato” anche quando si cancella l’equivalenza o si trasforma in baratto, togliendo di mezzo il danaro, il quale aggiunge un elemento astratto al processo di scambio, ma lascia immutata la sua logica di base. Infatti “è il dare e ricevere, e non la costrizione della reciprocità, che crea i legami di base. L’interazione di praticare e ricevere cure è il fattore vicendevolmente creativo, non l’imposizione o l’osservanza delle leggi, né l’equivalenza dello scambio, né la costrizione della reciprocità” [Nota 18]. Come si vede affatto diversa è la logica della pratica materna che esige “che chi nutre dia attenzione ai bisogni dell’altra persona; la sua ricompensa è il benessere dell’altro. Esistono molti tipi diversi di bisogni ed è talvolta una sfida comprenderli e provvedere a essi. Il donare e ricevere attraverso un processo continuo crea aspettative e ricompense, una conoscenza dell’altra persona e del bene che soddisfa il bisogno, un impegno verso ulteriori cure e l’aspettativa di un rapporto che perdura nel tempo. Ciascuna persona partecipe risulterà piuttosto cambiata a seguito di questa esperienza” [Nota 19]. Per il loro “ruolo sociale da adulte (per quanto esso possa essere socialmente squalificato e svalutato)…le donne sono l’avanguardia, le portatrici della pratica del dono come programma sociale, come modo di organizzare la società odierna e futura” [Nota 20].

Un diverso Paradigma Cognitivo alla base del Paradigma del Dono

Il merito di Vaughan sta nell’aver identificato nella pratica materna del dono la base di una “grammatica universale” della vita che struttura anche ambiti apparentemente molto distanti come l’economia capitalistica dello scambio. D’altra parte un dono specialissimo e inestimabile, il dono della vita, elargito gratuitamente dalle madri, fonda la specie, rendendo possibile ogni esperienza, ogni pensiero, ogni scelta a livello individuale o collettivo. Invero tutto il sistema dei viventi si regge sugli organismi in grado di riprodursi, i quali hanno costruito se stessi e la propria specie interconnettendosi, talvolta inglobandosi tra loro e annettendo l’ambiente. Il dono materno della vita è foriero di infiniti altri doni che combinano i vari aspetti dell’esistenza in un intreccio insolubile, producendo un sistema di pensiero aperto, inclusivo e connettivo. Ciò vuol dire che non si può applicare il paradigma del dono alla sola economia senza tener conto che esso riposa su un paradigma cognitivo in cui tutto si tiene, né si può pensare che possa scaturire come compendium di discipline che nascono separate le une dalle altre a causa di un punto di vista parziale sul mondo. L’economia del dono può operare solo in comunità che si organizzano attorno al vivente e perseguono il sostegno alla vita come loro fine. Siccome il mondo dei viventi è estremamente complesso e in continuo divenire, occorre una mente particolarmente aperta e flessibile per poterlo comprendere e governare. Occorre in particolare maturare un colpo d’occhio che riesca a cogliere un insieme come il risultato di innumerevoli quanto inscindibili nessi tra le sue parti. Prendiamo ad esempio un organismo, il cui funzionamento viene spesso accostato ad una macchina dalla quale si discosta, invece, in modo decisivo. La macchina è in condizione di funzionare solo alla fine, quando i pezzi, costruiti separatamente, vengono assemblati. L’organismo vivente invece deve funzionare fin dall’inizio e i suoi organi si sviluppano collegandosi fra loro in una trama inestricabile. Per conoscerlo realmente con tutte le sue esigenze e innumerevoli potenzialità occorre percepirlo come un unicum indivisibile. Il superiore colpo d’occhio manca agli uomini per i quali il soggetto non è l’organismo vivente. Il pensiero filosofico infatti lo ignora ed ha adottato al suo posto un inesistente essere spirituale – che chiama appunto spirito o ragione o anima – a cui ha affidato tutto il valore dell’essere umano, mentre il corpo è stato relegato nel mondo della materia opaca. Nonostante da anni ormai si parli di unità corpo/mente, la configurazione di un organismo unitario, autonomo, responsabile della sua esistenza e della sua evoluzione non viene da nessuna disciplina, basti pensare che le ricerche scientifiche si basano sugli ultimi costituenti della materia e dei sistemi, a cui si attribuiscono qualità mirabolanti. Non è l’organismo a dotarsi di ciò che gli serve, ma l’ormone, il gene a dettare leggi. Allo stato dell’arte solo la teoria del corpo pensante, da me elaborata e descritta nel saggio Il corpo pensa - Umanità o Femminità? [Nota 21], “attraverso un differente approccio al reale, ha permesso il pieno riconoscimento del corpo biologico e l’inestricabilità delle dimensioni sensibile-affettiva e cognitiva, finora considerate divise ed opposte, tutt’al più accostate senza mai coincidere. Ha restituito in tal modo il giusto valore al corpo vivente, ha riconosciuto in lui il vero protagonista dell’avventura che ha reso il pianeta adatto alla vita, gli ha attribuito il merito di rendere possibile, evolvendosi, la spiritualità in tutti i suoi elevati aspetti, collocandolo nello stesso tempo in una rete organica di nessi inscindibili tra organismi e con l’ambiente” [Nota 22]. La comprensione di cosa un organismo effettivamente sia ha permesso di spiegare le cause della bizzarra svalutazione della vita, ridotta ad optional del tutto insignificante, e della distruttività endemiche nelle società androcratiche. Che l’organismo sia un sistema capace di auto organizzarsi e autoregolarsi è risaputo, ma stenta a farsi strada l’idea che, se è così, deve essere prima di tutto e soprattutto un sistema cognitivo. Poiché è sensibile è in grado di esperire, l’esperienza produce conoscenze, quindi pensiero. La mente è insomma un processo del corpo biologico il quale, lungi dall’essere mero ricettacolo di una ragione aliena, ne è il produttore. In altri termini la sensibilità e l’affettività, considerate dagli uomini un ostacolo alla ragione, sono ciò che la rende possibile. Ad assicurare al pensiero la sua forma è l’esperienza riproduttiva, la più importante perché garantisce l’esistenza alla nostra come alle altre specie. E’ proprio l’inesperienza maschile nel campo della produzione e cura della vita a privare gli uomini dei saperi fondamentali sui viventi e a ridurne l’orizzonte cognitivo. Ciò determina un punto di vista parziale, incline a cogliere un singolo dato sconnesso dall’insieme di cui fa parte. Così assolutizzato ed entizzato esso richiama il suo opposto con cui ingaggia una lotta che può concludersi solo con l’eliminazione di uno dei due. Il mondo maschile è atomizzato, esageratamente conflittuale ma anche astratto perché non corrisponde al mondo reale che è il risultato dell’interconnessione di tutti i viventi. Il maschio umano riproduce lo stesso schema nella percezione di sé: l’anima confligge col corpo, la ragione con l’affettività e così via. Fatto a pezzi il corpo vivente scompare come soggetto unitario, capace di esperire, produrre pensiero e compiere scelte autonome; non più fonte di conoscenza qual è retrocede a mero oggetto. Per questo motivo l’uomo vive proiettato all’esterno fuori dal proprio corpo, fra tutti i sensi privilegia la vista, riducendosi ad un occhio che vede il mondo ma non si vede; si pone infatti alla finestra e appiattisce il reale su uno schermo dove passano oggetti che manipola a piacimento. Il suo stesso corpo diventa oggetto non fonte di conoscenza quale in realtà è. Il vivente non alberga nel paesaggio cognitivo degli uomini perché essi non hanno sapere di sé.

Idea di Comune come intreccio insolubile di nessi

Ora l’idea di comune, di comunità abbisogna di uno sguardo avvolgente che non si limiti alla mera aggregazione di dati percepiti come isolati, cioè al semplice collegamento tra un dato e l’altro, ma colga l’intreccio di nessi che costituiscono l’insieme. E’ il colpo d’occhio cui si accennava prima, ricavato dall’esperienza procreativa e di cura dalla donna, il soggetto che fonda la specie a partire dall’autocostruzione. Se è vero, com’è vero, che la mente è un’emergenza del corpo biologico, il corpo che costruisce e contiene matura necessariamente una forma mentis costruttiva, inclusiva e connettiva. La donna sta tutta intera nel mondo, lo percepisce attraverso tutti i sensi e perciò lo assume nel suo insieme attraverso uno sguardo circolare. Il sistema concettuale che ne risulta è aperto e unificante tanto da sopportare la complessità del reale e flessibile al punto da seguirne il continuo divenire. Un’altra caratteristica importante che permette alle donne di mettere in pratica l’idea di comune, è la capacità di non radicalizzare i conflitti. Grazie all’ampiezza della loro visione possono scorgere tra i poli, su cui lo sguardo maschile appiattisce il reale, altre variabili che consentono soluzioni diverse dall’eliminazione di uno dei due. Secondo me tale peculiarità, peraltro confermata dalle ricerche scientifiche, non è da sottovalutare perché può far cessare l’orrore della guerra, non solo guerreggiata ma quella che ostacola relazioni pacifiche e costruttive, un’impresa sovrumana fintantoché il sistema concettuale maschile continuerà a detenere il monopolio del pensiero della specie [Nota 23]. La guerra è incancellabile perché intrinseca al modus cogitandi maschile che polarizza il reale e trasforma l’altro in nemico (basti pensare che il nemico per eccellenza è la donna, cioè la madre della specie), così come è impensabile un’economia che tenda a sostenere la vita se la matematica continua a rappresentare l’ideale della conoscenza, preferendo l’avere all’essere. Il pensiero calcolante, analitico e decostruttivo si applica a tutta la realtà facendole perdere consistenza. Se un oggetto viene diviso in parti, queste in altre parti e così via, alla fine l’oggetto iniziale non esiste più. E’ così che, lacerato e scisso, l’organismo vivente, svapora come tutto il reale privato dei nessi unificanti. Perché il bene comune venga riconosciuto come asse portante dell’economia e della politica, occorre percepire prima di tutto se stessi come parte integrante e responsabile di un insieme, mentre gli uomini si percepiscono come individui isolati in lotta contro tutto e tutti. Invero l’intero pianeta è un bene comune di tutti i viventi dato che sono stati loro a renderlo adatto alla vita.

Uscire dal vicolo cieco

Il governo del pianeta è in mano agli uomini [Nota 24], poiché essi hanno preteso e pretendono tutto il potere bisogna che si accollino tutta la responsabilità, anche quella di guidare la specie verso l’auto annientamento. Tuttavia nessuna/o si chiede come mai il maschio umano da vivente disprezza, bracca, perseguita la vita in tutte le sue forme mentre festeggia e sacralizza la distruttività e la morte. La teoria del corpo pensante si è posta la domanda ed ha anche mostrato che si può uscire dal vicolo cieco in cui il governo dei padri ha cacciato la specie. Occorre però liberarsi dei suoi paradigmi interpretativi e riconcettualizzare, operazioni che solo le donne possono fare perché stanno nel mondo e lo osservano in modo diverso e hanno sviluppato una razionalità funzionale alla vita e alla crescita. Possono inoltre aiutare gli uomini a superare i rigidi meccanismi mentali che li alienano dalle loro radici vitali, relegandoli ai margini della vita. Condicio sine qua non è che essi rinuncino alla menzogna circa la loro primarietà, su cui hanno edificato il loro potere millenario, e riconoscano la verità più vera che ci sia, e cioè di essere figli delle donne. D’altronde niente si può costruire sulla menzogna e nessun problema può essere risolto senza riconoscerne la causa. Il disegno esistenziale maschile è palesemente avverso alla vita, prova ne sia l’universale oscuramento-sfruttamento delle attività femminili di cura e sostegno della vita che rende la democrazia, la giustizia, la libertà vuote parole senza possibilità di realizzazione.

Note

  1. Genevieve Vaughan – "Per-donare. Una critica femminista dello scambio" – Meltemi.edu – pag. 35
  2. Vaughan nella nota 4 al cap. 3° cita Alain Caillè. Jacques Godbour, Serge Latouche e la rivista “MAUSS”
  3. Ibidem pagg. 16, 17
  4. Ibidem pag. 17
  5. Ibidem pag. 34
  6. Ibidem pag. 36
  7. Ibidem pag. 34
  8. Ibidem pag. 36
  9. Ibidem pag. 37
  10. Ibidem pag. 61
  11. Ibidem pag. 37
  12. Ibidem pag. 73
  13. Ibidem pag. 71
  14. Ibidem pag. 73
  15. Ibidem pag, 72
  16. Ibidem pag. 65
  17. Ibidem pag. 66
  18. Ibidem pag. 66
  19. Ibidem pag. 43
  20. Ibidem pagg. 66, 67
  21. Angela Giuffrida – "Il corpo pensa - Umanità o Femminità?", Prospettiva Edizioni, Roma, 2002
  22. Angela Giuffrida – La razionalità femminile unico antidoto alla guerra – Bonaccorso Editore 2011 pag. 9,10
  23. Ibidem
  24. Nel mondo sono maschi: 97,6% dei miliardari – 95,2% degli amministratori delegati; 94% di governatori di banche centrali; 92,8% di premier e capi di stato (Font:e Forbes Economist) – Gli inadeguati in la Repubblica, 8/06/2015
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